
TRADUCENDO BRECHT
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
NELLA STEPPA
Dove il sole finirà e dove l’ala
poggia, del cielo al confine
del deserto senz’altra parola
se non quella che il vento diverte nei cardi
e in valli d’ossa e rughe o modula
dalle potenti centrali dei laghi
che a miliardi di volts trapassano questi riposi,
che sera viene?
Giorni immensi, a chi apri, vento,
chi nel deserto è giovane, chi pensa,
tornato a giovinezza da ogni età,
come spezzare i cuori
con verità felici e le menti ardere
degli uomini lontani? O se già aria,
voci di strazio tra gli spini tristi
siano quei che dovevano
esistere per noi,
vivi abitare questo spazio e amici?
IL MULINO DELLA FORESTA NERA
Verso dove? Tutto trema
e del bosco la gola verde
sulla casipola acquattata
e l’acqua che lega i macigni.
L’asse del traino si spezzò là.
L’industria lasciò questi luoghi.
Aceri, edere, sambuco…
Verso dove? A fonte e foce.
Vecchiaia caduta in infanzia,
vita che torna a miniera,
la ruota morta non sa
che è verità necessaria
qui dove i cuori fermi nell’aria
secolare domandano pietà
e senso a schegge di crani di servi,
a capi molli di fantolini;
e, rovina, nonnulla, speranza
in fondo a un bosco, come esistere
nei figli senza la tua miseria?
Mulino di niente, certezza…
La sera sale in cima agli aceri
e gli animali custodiranno
per questa notte a noi lontani
una casa nostra vuota.
LA PARTENZA
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste
andrò verso il mio treno.
LE RADICI
Ormai dopo quest’ora non verrà nessuno.
Così siamo ancora soli, amore,
e per questo riposo vedi
nell’esistere unico, nel limite
che la tua man ha dall’aria
come la rosa nella sera dell’orto,
quanto ci punge, quanto si disegna
vera e a sé giunge chiara
la storia tremenda ma degna di noi
che il mondo è stato. Ora in fondo alla terra
si nasconde l’acqua tenera
che versi alle piante innocenti.
5 poesie di Franco Fortini (Firenze, 10 settembre 1917 – Milano, 28 novembre 1994)
da “Una volta per sempre”
(ora in “Tutte le poesie”, a cura di Luca Lenzini, Oscar Mondadori, 2014)