HELENA JANECZEK – una selezione di poesie

Helena Janeczek, vincitrice nel 2017 del premio Strega, è anche poetessa. In Germania aveva esordito con una raccolta accolta alla grande, poi però più nulla, il passaggio ad un’altra fase del dire, un’altra vita, l’Italia, il dire profondo di una voce che narra. Ma che a questo punto spero ritorni anche a poetare. Di lei ho letto una manciata di testi, che qui in parte ripropongo, ma che mi sono bastati per restare stupito da questo dire che viene da un altrove interno alla nostra lingua, qui visitata da una voce, allora giovane, che è stata capace di abitare i luoghi pur riconoscendosi fantasma, e in questo caso eco di parole, che poi non sono altro che la vera poesia quando si distanzia dai soliti codici e prende aria, o perde peso. È questo rimanere in quota, sospesi, in una terra di nessuno (o forse di tutti, ovvero ancora il dire poetico) il vero dono che inconsciamente la Janeczek ci e si regala affrontando il giusto squilibro tra idioma nativo (interno e dell’anima) e idioma acquisito (arrivato come preternaturale a riconoscersi nell’autrice e a farsi rinnovo dell’anima persa – ed ecco il non luogo che diventa poesia). E come non trovare Celan, specie nella serie di poesie tratte da “ins Freie”, uscito in Germania per Suhrkamp nel 1989, sia per il taglio deciso, pietroso, che per quell’impossibilità della lingua, quell’inverosimile che fonda destino e vita, che è poi la poesia stessa? Come anche vi è l’eco del poeta friulano Benedetti, invece, nelle poesie apparse su Nuovi Argomenti; queste topografie dell’anima che sondano l’interiorità del diverso, in questo caso in maniera più ampia ma, appunto come in Benedetti, con quell’incedere cieco che fa diventare respiro ogni verso. Questo mio stupore per la poesia di Helena Janeczek, che meglio conosco come narratrice e ora scopro anche come poetessa, mi fa sperare di leggere in futuro ancora sue nuove poesie. Perché quando la poesia è vera e densa, non si può non riconoscerla e continuare a coltivarla e pregarla.
 
 
Antonio Bux
 
 
 
Segrate
 
Questa vera nebbia
che raccoglie lo stagno ornamentale
e si addensa sul vetro senza finestre,
perché non c’è una finestra
o una porta o un muro, niente dentro
che qui potrebbe lasciarsi chiudere o aprire,
perché il muro è di vetro
che la nebbia fuori ricopre.
 
Pareti di carta e di aria che
scoperchia le teste fino alle spalle,
e in basso i piedi vanno via separati,
mentre dritto, fra parete e parete,
lungo il corridoio e il vetro,
si siede fermi quasi invisibili.
 
Ma le nostre voci sono illimitate, non sono
di nessuna sede, sono ascoltabili,
sono da ascoltare.
 
Nelle altre voci
si siede sempre più fermi. Nella propria
si rinuncia.
 
Per questo un’altra voce
mi raccoglie e copre come la nebbia.
 
Contro la nebbia e lo stagno
che dentro la nebbia imbianca il muro,
contro il vetro di muro e l’aria di parete di carta,
l’aria dai buchi del soffitto
e la luce bianca di sotto i buchi
che riduce in brace di polvere l’aria,
contro le altre ascoltabili voci
che sono di altri.
 
 
Oltre le nebbie
 
Questa che per me è la lingua della pietà,
di parole che posso dimenticarmi o dire,
perché anche se mi passano di bocca,
come scivola di mano una bottiglia
e si spacca, che io raccatto e pulisco,
pulisco e perdo, qualcuno mi perdona
 
 
Vicino a Parma
 
I.
 
La terra cui passi accanto, come di notte,
già molto prima, d’inverno,
non te l’aspetti così a ridosso,
ombra e grumi, che da basso riverbera.
 
Non vedi i campi, non vedi, dalla macchina,
che un paio di righe arate, in fuga per ogni lato.
 
E’ di profilo, è buia, è solo terra che si perde
e che prosegue, e sembra essere il tuo peso,
sembra avere un calore da volersi distendere.
 
Sdraiarsi a pancia in giù, fare uno strato
sulla crosta aperta che pare sfiati
da sotto, dove non tocchi né mai la vedi,
più forte di una forma,
e non sai se le somigli o le appartieni,
– che non arrivino al cuore, a cambiare-
se ti sorregge da lì, al centro liquida.
 
 
II.
 
Se è così,
se resta solo roba secca fatta di trame,
come mio padre ridotto alle sue foto,
o tante o poche, o vivo o morto non importa,
meglio dimenticare:
al posto dei ricordi un raschiamento
di figure, voci e facce,
perché fa male,
perché, da sotto, dove ho dimenticato,
prima o dopo venga da scoppiare
a piangere, perché non riesco
a tenerlo dentro, perché neanche l’amore
che lo certifica, riesce a contenere
i morti e i vivi.
 
 
Valsesia, maggio
 
Scendono con la pioggia.
Da tutti i fianchi cadono
nel mezzo, nel letto.
 
Scendiamo con l’erba bagnata.
Alberi, erba: a reggere l’acqua,
alta ai nostri piedi come l’erba.
 
Pioveva nel fiume.
Non potevamo sederci vicino
e piangere al ricordo.
 
Scendono dagli occhi.
Se aprissi la bocca,
i fiumi saprebbero di sale.
 
Ricordandoci di noi, fatti d’acqua:
da tenere insieme ancora
e salare, forse, e scaldare.
 
Piangendo e non cadendo
scendiamo come la pioggia
nel male comune, sul fiume.
 
Freddi fragili bagnati benedetti:
come la rapida Balmuccia cade
a schiacciarci i nemici.
 
 
Parigi, Aprile
 
Non dormi.
Nuoti intorno ai rumori della stanza,
lento e con gli occhi che si richiudono.
 
Un letto azzurro a Parigi
sta con la testata verso la finestra,
e azzurra nei rami del parco
la città tra due letti.
 
Un uccello morto a un ramo, dietro la stanza.
 
Distesi di fronte a Parigi,
accanto agli uccelli di Saint Julien-le-Pauvre,
secondo piano, passerotti e piccioni
sopra il fiume.
 
Dormirci di fronte, accanto al fiume.
 
Giri nel piccolo letto,
tardi nel pomeriggio,
come la tartaruga marina che hai visto
intorno al suo respiro.
 
 
Seggiovia di Monte Solaro, Capri
 
Potremmo schiacciare quelle bestie dall’aria,
i nani e gli arnesi di plastica e latta,
là dove i piedi non toccano di poco.
 
Ora dormi sul dorso del monte dopo una pioggia,
ma io non credo che siano di un’unica madre
le cose nel mare, morte o vive sott’acqua.
 
Sotto l’isola, nelle grotte,
tra gli scogli e le rocce,
polipi, scorfani, seppie nere,
razze, sul fondo, e murene,
tracine, totani, cicale,
rane pescatrici, calamari.
 
Tua madre al nord mi insegnava a svuotare
i molluschi staccando gli occhi e l’osso,
rovesciando dal sacco lo stomaco sporco.
 
Vinceva lo schifo viscido di morto,
ma dentro il bagagliaio le avevano portato
suo padre nel panico di un capitone vivo.
 
Polipi, scorfani, seppie nere,
razze, sul fondo, e murene,
tracine, totani, calamari,
e pezzi di navi da guerra,
materiali di morti.
 
Ora dormi in faccia alla città sulla cima del monte,
sull’isola risparmiata, sopra l’acqua del golfo
dove era affondato tuo nonno con la nave nel porto.
 
Dove i nostri piedi non toccano di poco,
le lucertole fuggono dalla loro ombra,
ma perdono peso: diamo all’aria potere.
 
 
 
TOPOGRAFIE DELL’ANIMA
 
di Helena Janeczek
 
[già in“Nuovi Argomenti”, N.34, Aprile-Giugno 2006]
 
 
*
 
Via in libertà, dove, l’aria è
qui tanto densa che
un ramo si piega in sé, solo lei colpita
e io già nascosto:
un impermeabile sull’altro:
per lei aspetto l’accesso
la pioggia
che si avvicina.
 
 
*
 
Sono rimasto qui
tra gli altri, seduto
e dopo, solo, dove va,
cammina con noi, poiché in alto
si contrae
e sopra tutti è: tuttavia
esso si forma,
dalle nubi e l’acqua, si chiude,
esclude loro ciò che
si dirige verso noi,
lo disperde in cielo.
 
 
*
 
Giravano. Là, lungo la strada
erano edifici. Anche i frontoni
uscivano, ci venivano incontro.
Un tetto a cupola, immagìnati,
si curvava sulla serra,
di sotto gli alberi, legati,
si arrampicavano sul vetro.
Hanno le campane.
Lo scampanio da lontano non ti apparteneva,
là, dall’altra parte, là non eravamo mai,
perché dicevi di sentire
i rami attraverso i vetri, per entrambi
questo è troppo lontano, vieni,
incamminiamoci nuovamente lungo i fiori
che vedono da lontano, come me.
Solo l’iride si placava
miope, quasi cieca.
 
 
*
 
Angolo di luce qui dentro,
con la finestra chiusa rimane dall’altra parte,
nel vetro dove fa spigolo, subito termina.
Se puoi aiutare, io ne sono impigliata,
diviene oro,
ma non va via di sera, da sopra,
con l’altra.
 
 
*
 
Nella serra, in inverno,
dove sei in inverno,
accanto al fiore, inclinato.
Ombre, Ombre.
 
 
 
[Helena Janeczek, Ins Freie , Suhrkamp 1989 – Traduzione di L. Arezzo]
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