ANTONIO BUX – Otto inediti (ottobre 2021)

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E piango perché non ho idea di te se mi stai accanto
muta presente come una volta, nel cambio
delle ore murate sull’orologio così vecchio oggi
che il volto non sa perché guarda. La mattina al centro
del tavolo è così grande, tocca respirarla
uscire dalla metafisica della casa, comprare uva
e poi una grotta ancora fuori da fare
la vera metafisica autunnale dove rallenta lo sguardo
è Ottobre, ci mancherà di superare i giorni
e poi il vento che nello specchio parla e la tua lingua
il pensiero di stare sui gradini con un mazzo di rose
e poi fare l’amore di riflesso nel cielo. Ora è per sempre
che piango, perché scopro l’ombra volare.
 
 
 
Fra molte ore ti toccherà piangere di nuovo
il bosco lesinese che ancora parla le sue dune
qui nell’occhio di vetro le lancette dei rami
non era vero il tempo. Che sopravviva il vero
che la vita sopravviva, una volta accesi a fumare
i ricordi nudi sulla panchina della spiaggia
come un deserto il mare. Ora ti attraversa il corpo
la tua esistenza è stata tutto questo spingere
da un lato all’altro del viale di casa
solo un lungo Agosto e le parole del sole
che entravano nella testa per aprire l’infanzia
la notte solitaria in un foglio. Perché ora è piangere
lo scrivere che dal tuo braccio ti allontana.
 
 
 
Come un brivido vai dentro l’acqua della pioggia
sembri tornare alla lentezza di poche dita
quando mimavano il moto dell’aria e il temporale
nei muri mai così spessi i muri alti sulle finestre
che dietro le finestre stava sempre uno sguardo
a diluire il tuo pensarti vivo e l’acqua
risaliva in cielo parlava di te alle nuvole
che ora così poche ti riducono il viso
mentre imiti la forza del vento e le tue dita
poggiate sull’erba sono le dita del campo o solo
la lentezza il muro che vorresti crollare. Un temporale
domani o la calma di un brivido sempre, tu sai
rumore della terra, chi vola qui chi cade.
 
 
 
E a notte vedo il giro dei pianeti il loro cuore
celeste sparire tra le vene delle antenne paraboliche
chissà cosa trasmettono dallo spazio, perché
influenzano gli oceani e la Luna sarà davvero specchio
di luce roteante, buco dove entrare da morti
ora che il segnale viene ripetuto, pulsa nel chiedere
ma la risposta tarda, un gelsomino tra i tanti
che ho guardato riflettersi e svanire dove andrà
quel cadavere sottile, quasi mai cadavere
forse riposa in una mano lontana tra le vene alte
di una montagna in Perù, in preciso allineamento
tra Saturno e Venere o magari dentro un bacio
che sogno mio su di un treno, nel millenovecentosei.
 
 
 
Alle clessidre dell’autunno chiedo d’essermi polvere
a questa notte io chiedo la bilancia perpetuamente alta
perpetuamente rotta, e a queste mani chiedo distanza
se mi tocco sotto la doccia io chiedo più acqua
alla donna che da qualche parte trema per me io chiedo
scusa per il mio ritardo, e agli occhi chiedo scusa
se mi vedo e non mi sento, e a questo corpo chiedo me
più forte, perpetuamente in lotta io chiedo questo mare
mentre sogno la notte io alla notte voglio chiedere cosa succede
nel profondo del mare, se c’è molta più acqua oppure
la donna che mi aspetta da sempre, io a tutto questo chiedo
perdono e chiedo rispetto, io chiedo di aspettare ancora un po’
a questo dio che mi prega io chiedo Dio fammi sentire.
 
 
 
Ricordo il sonno di dov’ero erba e forse montagna
o qualche nido lasciato là in alto a rischiare
non era ancora il tempo della nebbia questo stare
germogliato eppure chiuso, l’odore della rosa
che sopporta il suo peso di essere un fiore soltanto
da strappare come si strappa appena il vento
se ripenso a com’ero, a quel sogno fatto anni fa
io ricordo i piedi come gambi abbottonati alla terra
e gli occhi così piccoli da vedere pure dentro
le ombre di chi piangeva o s’innamorava perdutamente
e puntualmente perdeva tutto quanto, così oggi qui perdo
il ricordo non posso dire queste parole perché vanno specchiate
se nel mio volto un sentiero compare io non ricordo.
 
 
 
E la piega primaverile del capo fa un balzo sul manto
d’erba che tu sai riflessa, che tu vuoi riflettere
davanti al nulla che piangi, al nulla che ti ritorna
bambino di piume e ferite, e le ali nascoste
ora le sai divorare, ora le hai sottilissime
simili agli occhi, a questi occhi ridotti a zappe
che sul manto d’erba tu sai l’irriflesso, la primavera
che viene dal freddo di ieri, dal freddo sul capo
quand’era segreto saper attendere il nulla
che più non ritorna, e ora hai una vasta scogliera
dove buttare il bambino, nella piega nera del volto
il sole che piangi, di nascosto dagli occhi.
 
 
 
Pensa all’orma che diventi la sabbia, al mare piegato
dal tuo sguardo che ne vuole orizzonte, e all’albero
se col monte combacia, oppure pensa alla luce bella
che non spiega niente, che come il cielo diventa
la tua realtà se la sogni, se vivi come un’ombra la luna
qui nel tuo giorno, e poi pensa al passato sotto la terra
è più grande e più lento, ti conquista un secondo
e quel secondo è di secoli avanti, dove sei sabbia
o l’orma di un pensiero, per questo pensi sempre meno
ora che il tuo corpo è alto sopra di te e cambia
il procedere che pensi sia vita, la linea di un tempo
formato da parole, ma la carne reinventa un messaggio
allora pensa cosa vuoi dire, e dillo con voce profonda.

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