ROBERTO CARIFI – da “Ablativo assoluto” (AnimaMundi 2020)

carifi solo fronte
L’ultima poesia di Roberto Carifi, qui raccolta col titolo “Ablativo assoluto” (AnimaMundi Edizioni, 2020), è la testimonianza di un allontanamento definitivo dalla vita e di un avvicinarsi sempre più prossimo alla morte terrena. E anche i versi, ridotti all’osso, raccolti e incisi nella carne, evidenziano quanto il poeta abbia raggiunto la sua finitudine e riesca a cristallizzarla per restituire al lettore quel dolore ormai così lieve, così definitivo che più non soffre ma che aspetta, come una viglia, la migrazione dello spirito verso quel limbo che si spera migliore. Non c’è dunque riscatto in questo libro, né salvezza; solo una mano che stanca vuole lasciarsi ancora condurre, e dire quel poco che resta, tanto della vita quanto della poesia. Un libro dunque duro e intimo, dove sono oscure e costanti presenze la malattia, la decadenza fisica, ma anche il fantasma materno che torna specchiato nell’autore, come a plasmare un’unica dissoluzione destinale, che ha nella sua radice la morte e la rinascita, così come l’unione al grembo fetale dell’amore tra un essere e chi lo fa venire al mondo. Ma è un mondo ormai troppo grave per dirne, e allora la contemplazione disillusa resta il solo appiglio, l’ultimo fiato con il quale evocare la pura sentenza dell’uomo. Ma c’è anche un’invocazione spiriturale (il monaco), così come un ricordo dei poeti amati, quei russi così glaciali e eternamente vivi (Esenin, Cvetaeva) che ancora resistono come un perenne ‘permafrost’ pensante. Tutto questo quadro reliquario fa da continuum, per il poeta, verso quel Nirvana qui e là citato, dove Carifi anela ritrovare tutto l’amore che in vita gli è stato in questo presente rimosso. Insomma un’opera totalizzante e senza scampo, questo Ablativo assoluto, il lavoro estremo e sorgivo di un poeta che tanto ha dato e continua a dare alla poesia italiana del secondo Novecento.
 
 
Antonio Bux
 
 
Nel luogo dove non ci sarà più niente
solo un riparo, un intimo inferno
parlerò a pochi, a delle quaglie
oppure a dei ramarri
sempre più solo
accanto ad una fonte.
 
 
Riempiono sventure la mia casa,
arroccato su ghiacce maree
la mia fine è compiuta
un pezzo di paradiso anche per me,
il passerotto che si getta nel fiume
freddo nella scogliera.
 
 
Il mare non è altro che gabbiani
vanno a diritto nel monte
finché non si saranno separati
dal bluastro, la montagna
darà conforto ai gabbiani
nelle loro conifere.
 
 
Scese per me il tuo tramonto
fatto di pietra, mamma dove sei
in fondo ad un pozzo o nel Nirvana,
oggi mi esercito a morire
i corvi attendono me
o qualche altra cosa.
 
 
Non hanno pace i volti dei bambini
disse un tempo dal suo esilio
la riva destra dove il fiume scende
rammenti, una madre in fondo a un letto
d’ospedale, con la mascherina,
ed il dottore vicino a me che mi diceva
finita, finita, finita.
 
 
Ora vorrei che mi portassi via,
dove c’è luce,
invece ci sono grotte,
cunicoli fangosi
lasciati alla mortalità.
 
 
Si alzeranno i boccaporti
innamorato ricciolo dei morti
la tua bocca somigliava ad un giglio
rematore che lasci andare la barca
infermo solo a metà
per questo inferno
in cielo.
 
 
Nel mio povero letto
patisco le grotte, avvisaglie
del mio trapassare
cratere occhi cavati
presto si ammaleranno,
sarò tramutato in sasso.
 
 
Qui è mancato il pane
e nevica ancora sull’erba tenera,
sulla tomba di Sergej.
Mi chiamano Marina,
è troppo che prego
impiccata a questa corda.
 
 
Cenere, sangue
mi accompagnano alle falde del Tibet
qui i voli dei gabbiani sono i miei fratelli
dove c’è l’immensa preghiera
pronunciata da tutti.
 
 
Dirò in solitudine le preghiere
a nord di tutte le terre, di tutte le nevi
vestito con un paio di pantaloni arancione
reciterò a voce bassa,
quasi impercettibile,
le ruote dell’illuminato.

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