Breve nota su “Il fortino” (Terre d’ulivi Edizioni, 2016) di Vera D’Atri
Che la vita sia un assedio, che si viva assediati e si combatta contro un nemico invisibile ogni giorno, è cosa nota. E che il poeta viva questo assedio con una perizia da stratega consumato, e che perda puntualmente la sua battaglia, uscendone ferito a morte, ma per questo ancora e di più vivo, è cosa che si impara sul campo. E questo campo è la vita, e la vita di un poeta, come di un qualsiasi artista, è ciò che viene a vivere quando si sedimenta la lotta tra testo ed esperienza. Poichè esperire è mettere in opera, ossia sacrificarsi, immolarsi sull’altare della vita, offrendo i propri resti al tempo stesso consumati e rinvigoriti. Data questa premessa, le strade da battere, per chi resiste, sono due: soccombere al primo colpo, senza curare le ferite, oppure continuare a costruire la propria difesa, a protezione dell’energia che si sente. E questo pare fare Vera D’Atri ne “Il fortino” (Terre d’ulivi Edizioni, 2016), una bella raccolta di versi dove l’esperire si fa lotta, ma non per attaccare o conquistare uno spazio nuovo, bensì per ottenere la salvaguardia dell’aria già a fatica conquistata. E la D’Atri lo fa con la precisione di un esperto cecchino, straripando a giuste dosi, con una poesia che da un lato tende al rispecchiamento riflessivo, spesso pragmatico, volgendo in un dettato anchilosante, mentre da un altro polo una ritmica incessante e una versificazione come di rami e grovigli tessono trame che svelano una poesia asciutta ma altrettanto lodevole (letteralmente, che profuma d’intenti e di passione, a volte ragionata, altre volte semplicemente estatica). E se la poesia non salva, dalla quotidianità dell’irreale, a volte questo ragionare sulla propria lotta crea un inceppamento, tra il ferire e l’essere feriti, tra il ragionare e lo sparire nell’immagine; e qui, nei versi di Vera D’Atri, forse a salvare è appunto l’esperire, il mostrarsi per ciò che si è mancati, in quel punto preciso della battaglia, per farsi visibile anche al più acerrimo dei nemici: se stessi.
Antonio Bux
10 poesie dal libro
*
L’uomo ha smesso. Ad una certa ora si smette.
La posa viene naturale. Le braccia sui braccioli,
la testa sul poggiatesta.
Sì, non c’è più tempo. Non ha più tempo,
ha prelevato tutto e
senza tregua.
E c’è un peso nuovo. Perché l’uomo
è uscito dalla pagina sottile più sottile di come
vi è entrato e la visione di sé ora è del tutto
cambiata.
Fin ora per aver quiete le notti si è affidato
a un mondo sempre uguale. Sta con una donna
per questo, per stare ad occhi chiusi in un barlume
di confidenza, per non cadere dalle
fondamenta,
per dimenticare che le fioriture
non coincidono più con l’allegria, che tutte
le meraviglie hanno trovato scampo
nel torpore.
Ma adesso la sillaba nuova è impronunciabile.
E il consueto imperativo ha ceduto.
*
Stasera il mio tempo non basterà agli istanti
perché non ho il potere di toccarti,
perché non muovo numeri, non altero gli eventi.
Qui, mentre ti guardo, il tempo è come un morso.
*
E quando è tristezza senza fuga allora presumi
d’esser morto, morto a sufficienza, morto a puntate
nella sera. E quando esci a cercar sollievo nomini un
dolore a caso, uno da spartire. Gridi la luce tra i grovigli,
il vuoto della forra, lo spasimo della rugiada, passi
attraverso le bestemmie perché non t’è rimasto
nulla dell’incantamento che furono i tuoi primi
anni, niente di quello che furono il tempio e
le colonne e niente della poesia che aveva
preso a cuore la tua sorte.
*
E tu, ardente, arso, ora ti concedi, ché sono
morta di rapida e fredda giovinezza, ché son sedotta
dal ritorno della fiamma e m’insoddisfo e prevedo
malattia, quel vezzeggiare a cuoricino, quel
temere d’esser persa nel mio niente, che ci
sia o non ci sia parola a renderti credibile
in questo gioco di nessuna intelligenza.
*
Dislocami in un fato acuminato
dove non consente scintilla Prometeo.
Toglimi la perfezione, il gusto di ferire,
metti il tuo no a far da mendicante tra questa folla
di cere e di piumaggi. Sappi annunciare la
sconfitta e la scarsità.
La vita che non cambia si strugge.
*
Se per cadenza che non rallentava
la tua voce increspava l’acqua io non trovavo
riva.
Dentro vane bracciate pativo l’affanno.
Cosa mi era utile e cosa mi uccideva
avevano lo stesso sfocato brillio.
*
Il sogno mi frugava. Senza rumore
come il tempo. La coscienza non andava
oltre, si fermava alla visione. Era vita anche
quella? E’ vita anche il sogno? Deve esserlo,
i morti non hanno visioni. Le colpe o i meriti
d’un tempo non li rattristano né li soddisfano.
E forse chissà se nelle loro monotonie
segretamente godano di tale vastità da dirsi vivi
di vita inconoscibile.
*
Così era tutto scritto dal principio.
Un silenzio lontano scavato nella memoria
degli uccelli. Così una montagna si assesta,
combacia col concavo dell’essere,
affatica
così per il vivo, così per l’inerte.
Questo era detto nel sonno ma poteva
affacciarsi alla veglia e far distintamente sentire
le nuvole gonfiarsi nel petto e il petto misurarsi col cielo
fino a impedire la notte, la privazione e la morte.
*
Non puoi sapere ciò che chiedi.
Dal boccaglio una lingua sconosciuta.
E aria di scompiglio, alzata di corifei alla
macchia. È tempo di metter via lo strascico
e tutte le ombre adibite al ballo. La vita
sotto quelle ali piccole da drago già
prende forma d’accondiscendenza.
*
Gli uccelli si disintegravano. E gli uomini
seduti al bar restavano a guardare.
Allora spinsi la mia ombra in un alveare
di miele e furore. Spinsi le mani nei cassetti. Io che
sapevo di questo sud? Tutto ronzava in cartolina
e dalle finestre alberi e cielo s’imparentavano
col mare. Spinsi la cattedrale a bisbigliare
ritorni e sepolture e nelle crepe tutti i
fiori fiorirono e la bellezza lenta del
lamento.
Ma chi arrivava come me, chi passava
con la sua musica sbagliata andava fatto impallidire,
andava fatto che smagrisse, lì, tra nere marine
di ricci, sfamato a fave e mezze lune di
corteccia, andava fatto che per sempre
perdesse il suo bagaglio.
Vera D’Atri è nata a Roma nel marzo del 1948. Vive a Napoli dal 1992. Ha conseguito il diploma di archivista all’archivio di Stato di Napoli. Solo dopo il 1997 si interessa di scrittura redigendo numerosi racconti e alcune brevi poesie facenti parte della raccolta “Abitare Sparta” con la quale ottiene una menzione di merito al premio Lorenzo Montano diciassettesima edizione. A questa fanno seguito una piccola silloge poetica delle Edizioni della Biblioteca a cura di Giovanni Pugliese intitolata “Il museo di vaniglia” e nel 2009 la pubblicazione della silloge “Una data segnata per partire” edita dalla Kolibris di Bologna con prefazione di Rossella Tempesta. All’attivo anche alcuni racconti pubblicati in antologie e su riviste e un romanzo “Buona bella brava” edito dalla Robin Edizioni nel 2010 e recensito da Enzo Rega su l’Indice dei libri. Suoi testi poetici compaiono su riviste, inserti culturali e numerosi blog (Opere inedite – di Luigia Sorrentino, Il giardino dei poeti,Transiti poetici, La casa senza tempo, La stanza di Nightingale, Gli occhi di Blimunda, Poetarum silva, Atelier, Pioggia obliqua, WSF). E’ presente inoltre nelle antologie “La giusta collera” edita da CFR, “Alter ego – Poeti al MANN”, Contatti diversi, I quaderni di Movimento Aperto, Scrittura sottovoce e Voci dell’aria, la parola abiatata ed è tra i vincitori del concorso “La vita in prosa 2011” con un racconto edito nell’antologia curata da Ivano Mugnaini e seconda classificata al concorso “ Scrivere a corte ” sempre del 2011. Terza classificata al premio Di Liegro 2012 sezione poesia. Sempre per la poesia è finalista al Premio Mazzacurati-Russo delle Edizioni d’If 2012-2013 con la plaquette “Tutte donne” A maggio 2013 esce la plaquette “Una tenace invadenza” a cura di Libro Aperto Edizioni. Ad ottobre 2013 è finalista al premio Michele Sovente, seconda edizione, sezione poesia inedita. Sue letture presso la biblioteca Nazionale di Napoli per la manifestazione “Veduta Leopardi”.