Con una immaginazione portentosa e un dono visionario che pare concesso esclusivamente a quegli spiriti mossi dal sacro, il verbo di Panero ci avvicina all’abisso. Così come nei suoi libri di poesia, anche in prosa, come nel presente “Papà, dammi la mano che ho paura”, un Panero rabbioso, iconoclasta, disperato, carico a volte di un humor più che nero, quasi sovversivo… dà vita a un canto di denuncia, ma senz’odio. Un canto fatto di riflessioni demolitrici, un canto terribile, sì, ma un canto. Un canto tremante, che non a caso parla dell’umano e del mondo creato dall’uomo, attraverso una sublime insoddisfazione, come quella di chi vive ancora sospeso in quella nostalgia di un paradiso perduto invano. O, più precisamente, invano costretto a perdersi. Questo paradiso, che ormai può solo piangere il suo angelo caduto.
Ana María Moix
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La mia anima è sola, è sola e piove contro la mia anima, e soffia il vento sulla mia anima, e l’insetto della vita è solo e piange mentre distrugge l’anima. E tu canti, canti nella notte canzoni senz’anima… Mentre la vita passa fuori e le ore corrono affamate di vita… Oh terrore di vivere e di essere solo, così solo contro il pianto, essere così solo senza il più piccolo pianto, così solo di schiuma sulle labbra di un idiota.
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Il mio caso è quello dello strano scrittore che è più solo dell’uno, straniero nella sua patria, come direbbe Rosalía de Castro. Uno scrittore con un complesso di castrazione infantile della grandezza di una cattedrale. Uno scrittore stanco, tanto stanco, in un paese di imbroglioni e lestofanti dove, così pare, proibire il corpo rappresenta la sola virtù. Se in qualche modo sono nella letteratura è per verificare fin dove può arrivare la vita, se la si forza in eccesso. Se in qualche modo sono nel verbo è per sapere che fine hanno fatto il vino e il grido, e il nitrito del cane e l’orizzonte dell’assenza.
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Chiedo solo una parola in più, una parola in più per sputare da solo un albero per il nulla. Il castigo è questo internamento, lo so, ma il peggior castigo è il silenzio, senza più appello, senza più respiro, senza comunicazione… La mia vita non merita il nome della vita, non vi è segno in essa di ciò che è la parola vita, e nel manicomio non si può supplicare, no si può chiedere grazia… La vita è usura, lacrima della voce contro l’uomo, lacrima del mondo distrutto, fumo che ricopre d’oro l’acqua… Io sono dall’altra parte della vita, dall’altra parte del tempo, dall’altra parte dello specchio e, come direbbe Azúa a voce alta, lo ripeto: “Ciò che conta è sapere da che parte si sta dello specchio”. Io sto dal lato della fonte, negando qualsiasi specchio, facendo della mia vita un salto nel vuoto, aquila che sorvola sulla rovina…
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E una voce sputa nel mezzo del mio sesso la parola “stronzogloria”, insulto a metà tra stronzo e gloria. E dunque sogno che ho vissuto e che mi chiamo in qualche modo. E sogno che sono qui… un qualcuno posto all’altra sponda dell’umano, perché come disse una volta Félix de Azúa: “La cosa più importante è sapere da che parte si è dello specchio”… E domani sarà un altro giro, un’altra corsa, un altro giro della bontà umana. E ora è come se restassero solo frantumi, della mia anima, solo i resti… mentre dei pazzi puzzolenti mi domandano con voce di rospo una sigaretta per incendiare la cenere della loro anima, per ridere di me dall’altra parte dello specchio, per ridere del bene e della vita, per ridere del Diavolo e di Dio, per ridere col seme alieno tra le labbra di ciò che sono riusciti ad essere.
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Non guardarmi negli occhi questa notte, Ana María. non guardarmi, per favore, sono ancora innamorato di te. Dimmi: Ana María Moix, adesso che siamo soli nella notte, senza guardarmi negli occhi, dimmi chi sono. Non si può entrare in una pagina come si entra in una tabaccheria. Non c’è uscita, Ana María, né evasione, né un sogno possibile, e l’uomo della tabaccheria continua a sorridere al nostro fianco. E una voce sputa dentro i nostri sessi la divina parolina “stronzogloria”, che è un bellissimo insulto a metà tra stronzo e gloria. Per il lungo viaggiare marino dal quale provengo, ho diritto alla mia stanchezza e alle mie ferite. Perché tutti gli uomini trovano il modo di vendicarsi del mondo, e il mio, tu lo sai, può essere solo quello di scrivere.
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Sono solo nell’ombra, prima di ascoltare qualcuno alle mie spalle sussurrarmi all’orecchio le sillabe della paura: “Papà, dammi la mano che ho paura”… Nessuno oramai può salvarmi, nessuno può curarmi, il fluire della coscienza è il mio premio e la mia vita. Gli uccelli volano sul foglio, la mia fronte cade ai miei piedi e la raccolgo, precipitosamente, per poi rimettermela a posto senza che nessuno se ne accorga… Un giorno tornerò, solo per chiederti di darmi la mano, perché mio padre non è più qui.
Leopoldo María Panero, frammenti da “Papà, dammi la mano che no paura” (Cahoba, 2007). Versione italiana di Antonio Bux