MASSIMO FERRETTI – alcune poesie

In trattoria
 
In questa trattoria di gente stanca
dove mangiare significa reagire,
dove la grazia d’una dattilografa
si percepisce nel tono delicato
d’un piatto di fagioli chiesto tiepido,
dove un viaggiatore analfabeta
emancipato per via dello stipendio
spiega a una turista anacoreta
che il rialzo dei biglietti ferroviari
dipende tutto da questioni atlantiche –
non ho ragione d’essere contento
se il cameriere lieto della mancia,
leggendo la commedia del mio viso
m’ha detto che ho una maschera da negro?
 
In questa trattoria di gente ottica
dove non so salvarmi dagli sguardi,
condannato al sentimento della morte,
serrato tra furore e timidezza –
non ho ragione d’essere felice
quando divoro una bistecca che fa sangue?
 
Il mio complesso è una tragedia antica:
devo scrivere e vorrei ballare.
 
 
Lode a un amico poeta
 
Tu sei della stirpe di chi vince:
il male che scalfisci non ti tocca,
la tua maturità non ha timori –
ma non ripetermi che qui è la foresta,
che l’uomo è sempre una rivolta in atto,
che il verbo del poeta è la pietà:
una rondine sottratta alla corrente.
 
E un giorno non mi capirai.
 
Entrerò nella turba dei Falliti
con l’umiltà che sempre mi ha distinto;
brucerò tanta rabbia dentro il cuore
che l’inferno tremerà nel riscaldarmi:
e avrò anch’io un duro contrappasso:
sarò il bullone d’un ponte americano.
 
La tribù degli eroi delle parole,
ripiegata sui freddi tavolini
dove la carta brucia nella penna,
si presta a certi sbagli disumani:
ed ecco i fumatori di matite,
i coppieri dei calamai ammuffiti,
gli alfieri delle “leggi” del partito,
i sacrestani delle muse benedette:
una folla assurda e senza volto
che nuota nell’inchiostro
con la scienza della carta-calcante.
E la marea li mescola agli onesti:
ai profeti della giustizia anchilosata,
alle trombe medievali della Croce,
agli amanti delle immagini rapite.
 
Ma il tuo sangue non vive in questi lacci:
e io brucio stelle pel tuo canto vergine
turbato solamente dalla vita!
Io brucio stelle pel tuo verso barbaro
fermato nelle canzoni verdi
dell’uomo vivo, immerso nella terra.
Il vento di Provenza che lo scuote
è il rifiuto della pace degli antichi,
l’insulto alla vergogna del ricatto sociale,
l’urlo per la misura della morte.
 
Ma l’ansia di toccare il cuore al mondo
t’ha piegato al torpore della Lingua
che hai destato in difficili rime.
E l’Italia salvata nelle origini
rivive nel profumo della luce:
ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia,
la cupa adolescenza delle ombre,
gli ardori consumati nel silenzio,
i passi svuotati nelle strade,
la costante follia della Chiarezza,
la nostalgia invincibile dell’alba,
la solitudine accettata come un pegno
da risolvere in numeri di vita.
 
La tua origine è un’onda mostruosa
che ha radici negli abissi della luna,
il tuo pianto è una luce senza limiti
che libera dal buio esseri veri,
e il tuo furore critico
che incendia foreste filologiche
e scava negli angoli dell’anima
in fondo non conosce che una meta:
il tropico del canto corrisposto
dove il cuore è il calore della terra
e il popolo il palpito del mondo.
 
 
I colori del gelo
 
Nella mia vita il viaggio resta il segno
di ciò che doveva essere la vita
se l’avessi capita troppo tardi.
Ma ho capito tutto troppo presto
e ogni viaggio è uno spostamento
da una solitudine a un silenzio:
da un’attesa a un tacito possesso.
 
Non posso non fermarmi al corridoio
d’un rapido treno della notte,
pieno di tedeschi d’ogni sesso
e di reclutare del nostro nuovo esercito.
 
– Dal congedo delle insegne luminose
dal patetico gergo dei consigli
salva, frau, questo provinciale!:
la tenerezza che sale da un abisso
è una luce che mi fa tremare,
la rivolta d’un reietto è una canzone,
il sole è il calore d’un relitto.
 
Sì, questa notte non sono entrato
perché sono un maschio in borghese
e non sono più un ragazzo
(“militari e ragazzi metà prezzo”):
sarò un alpino e avrò una penna nera,
non starò più attaccato a un finestrino
a decifrare teoremi neutrali
su estetiche statali e militari.
 
L’esercito amava alle mie spalle,
ma io non sono un soldato dell’esercito:
io sono un soldato della vita
e stanotte ho giocato una partita
molto più dura di quelle che faranno
i soldati che stanotte ti hanno avuta
e quelli che dormivano beati
nelle scomode amache improvvisate
con le retine dei portabagagli
e quelli incastrati nei sedili
tra tedeschi saturi di birra
e l’incenso dei piedi senza scarpe.
 
Davanti al vetro in cui ti specchi
per pettinare in pace i tuoi capelli
e mi chiedi perché non sono entrato
e mi dici che sarò un alpino,
stanotte ho guardato il mio destino.
 
La mia provincia verde di colline
la mia valle torbida di nebbia
il paese dove sono nato
la casa che mi ha cresciuto –
tornarono nel buio del paesaggio
che il treno divorava nella corsa:
venivo da loro e a loro ritornavo,
ma loro non mi offrivano la vita:
m’offrivano il teatro di me stesso
per monologare all’infinito
lucindando l’archivio degli errori,
vitali colori del mio gelo.
 
 
 
La croce copiativa
 
E ho rimandato a domani
la certezza d’un nuovo dolore –
e sono salito sul tetto a prendere il sole.
Il sole incendiava il paese
e il cielo invadeva i cervelli
al sicuro dal bene e dal male
a passeggio per le strade
o sulle poltrone dei caffè
con l’aperitivo amaro come la maldicenza
necessaria per non morire di noia,
e nell’azzurro di un girovago aeroplano
bruciava i manifesti di “votate”
che i monelli aspettavano in terra
per festeggiarli in un fuoco d’indiani.
E il sole che ardeva un paese in calor
scioglieva dal peso d’ogni dolore
il ghiaccio maligno del rimorso:
e disteso sul tetto di lastre rosso,
il mio corpo senza più cuore
ha fischiato la vecchia canzone
di chi è felice d’essere al mondo.
 
 
Anch’io sono il mare
 
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
 
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
 
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
 
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
 
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
 
 
Breviario di bravo ragazzo 1958
 
Tra l’incubo della pagina bianca
e la pena della pagina nera, cosa c’era?
C’era l’illusione di parlare
di qualcosaltro di diverso
dal “qualcosa” che sono io
e che è la sola cosa che so e che debbo fare:
e ritorno ai morsi delle belve
che sdentate m’aspettano nel circo
per esibire un appetito magro
più arido della mia monotonia.
 
L’autunno ci separa già dal sole
e qui nell’impassibile città
gusteremo la nuova passerella
delle belle dell’avanspettacolo;
ritornano le ignote compagnie
con le soubrettes che costano una cena
mangiata insieme nella trattoria –
corpi di ragazze in movimento
la cui Bellezza appartiene alla Platea
che l’ha pagata nel prezzo del biglietto.
 
Ma è successo qualcosa d’importante:
ho imparato a guidare l’automobile
e ho saputo per la prima volta
che la felicità viene dai piedi,
i miei piedi sospesi ad altalena
tra la frizione e l’acceleratore:
sì, è morto per sempre lo stupore.
 
E nel pantano di questa mia campagna –
percorsa per non entrare nel circuito
con stivali da terra di nessuno –
dove credevo che fosse possibile
soltanto morire
invece ci si può anche vivere.
Qui non ho gli abbagli intermittenti
delle luci dei lampi al magnesio,
ho soltanto i fuochi artificiali
delle feste annuali dei conventi.
 
Tra i miei illustri colleghi decadenti,
lividi di gesta sovrumane,
e la serenità del mio squallore
è scattata una luce di saggezza:
posso guardarlo in faccia il mio dolore,
non ho bisogno di vestirlo a lutto
con l’alta gloria della santità.
 
Cito il Vangelo parlando del governo
cito Marx consumando un pasto
cito Freud nella cronaca d’un ballo.
I conoscenti mi trovano cambiato:
e sono solo diventato un po’ tarchiato,
e l’antica carica di rabbia
ho imparato a comporla in un silenzio
esatto tellurico opprimente:
se esplodo e mi svelo interamente
mi dicono che sono un animale
scottato da piccolo nel fuoco
ma che ormai alla mia età dovrei capire
che una stufa fa comodo d’inverno.
 
Sto imparando le Tattiche del Branco,
io che ero fuggito dalla folla
per scoprire la logica dei sogni?
 
Dalla folla attratto dalla folla respinto,
dagli eletti attratto dagli eletti respinto:
ragazzo-massa e intellettuale,
sono un fiume che ha raggiunto il mare.
 
Sono caduto anch’io dentro la ruota,
troppo giovane per non sentire niente
e troppo vecchio per sperare di scappare.
Nessuno ha conquistato l’orizzonte:
ogni orizzonte è un raggio della ruota,
giunti ad uno se ne scopre un altro
e si continua fino all’infinito.
 
Dovevo uccidere per essere coerente?
svaligiare una banca?, possedere un re?
 
Il mio dolore è una cambiale in bianco
 
 
Ballata ininterrotta
 
Gioia infinita di sentirsi
nel coro; di dire: anch’io canto
con loro. Non sono belle le loro
canzoni, ed essi hanno
la voce stonata: Eppure ora tace
la capra stranita legata
all’albero magro. Non è il frastuono
che strozza i belati: anch’essa ha visto
quelle ironiche bocche far saltare
l’allegria lungo i campi.
– Non m’ammazzare, bionda, sono giovane!
– Coraggio! Pedala: scopri i ginocchi!
– Hei bionda, svicola: e avrai cento amanti!
Ma passa la bionda ciclista
e viene una siepe di filo
di ferro che senza sfiorarmi
mi squarcia la carne e il cuore mi sfibra:
rammenta una sorte. E non sono
nel coro. Io sono solo.
 
 
IV
 
Ho nascosto in un cassetto vuoto
il pacchetto di morte sigarette
che avevi stretto nella mano oscura:
per trovarlo nel buio senza attendere
e riprenderci l’impulso della vita.
 
Sui tuoi occhi ho perduto la mia morte
e col terrore d’essere felice
ho spiato il potere dell’amore.
 
E in un antico sonno musicale
ho danzato fino all’altopiano
dove tu dormivi inaccessibile,
e furtivo ho appoggiato alla scarpata
la bianca scala del mio inondato sogno:
ma aveva gradini troppo nudi
e per raggiungerti
dovevo camminare sul mio cuore;
e mi sono arrampicato sulla tua
e ad ogni passo ho calpestato un nome –
nomi che ricordavano e ridevano…
 
E nell’azzurro reale del mattino
ho adorato i sogni chiusi della notte
che si ricordano fino ad una curva.
 
 
 
Massimo Ferretti (Chiaravalle, 13 febbraio 1935 – Roma, 20 novembre 1974) è stato un poeta, scrittore e giornalista italiano.
 
Massimo Ferretti nasce il 13 febbraio 1935 a Chiaravalle, nelle Marche, da una famiglia della media borghesia. Il padre Aurelio è geometra e la madre Jole è maestra elementare. Nel 1939 nasce Maurizio, unico fratello, compagno di giochi e poi confidente di una vita.
 
A sette anni Ferretti comincia ad avvertire i sintomi di una grave malattia: l’endocardite reumatica, una disfunzione cardiaca che si manifesta con forti dolori al petto e febbre altissima, che lo costringerà a continui ricoveri in ospedale e lunghi periodi a letto. Nel 1942 anche a Chiaravalle la guerra si fa sentire attraverso feroci e distruttivi bombardamenti. La famiglia Ferretti è costretta a sfollare in un convento nella vicina Belvedere Ostrense (AN). L’impatto con la guerra è terribile per un bambino che deve convivere con la paura, immobile in un letto, ma è in questo periodo che scopre nella scrittura un potere terapeutico che lo aiuta a superare le sue difficoltà. Inizia a scrivere un diario che poi distruggerà a dodici anni in un momento di rabbia. Nel 1951 la famiglia decide di trasferirsi a Jesi, lontana da Chiaravalle pochi chilometri, ma sentita subita estranea da Ferretti.
 
Qui frequenta il ginnasio con scarsi risultati tanto che viene bocciato alla licenza ginnasiale. La sua può essere definita una formazione da autodidatta con letture dei poeti tipici della sua generazione: Rimbaud, Eliot, Montale. Scopre così la sua vocazione poetica ed inizia a comporre versi. Nascono su questo terreno i primi conflitti con il padre, che in parte asseconda la sua vocazione ma predilige per lui studi che lo possano avviare ad una professione con sicuri guadagni.
 
Ancora studente di liceo pubblica il suo primo poemetto (Deoso, Siena, Casa editrice Maia, maggio 1954). L’anno successivo stampa, sempre a proprie spese, una plaquette di versi Allergia (Jesi, Tipografia Civerchia, 1955). In quello stesso anno spedisce le due plaquettes a diverse riviste di letteratura. L’unico a entusiasmarsene è Pier Paolo Pasolini che decide di pubblicarne una scelta su “Officina” (febbraio ’56). Nel novembre del 1957, dietro pressione del padre, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, a Perugia. Nel dicembre dello stesso anno incontra per la prima volta a Roma Pasolini, col quale peraltro aveva già avviato un fitto carteggio. Nell’ottobre del 1959 decide di trasferirsi all’Università di Camerino a causa dei risultati disastrosi che fino a quel momento aveva conseguito a Perugia. A Camerino gli giungerà la terribile notizia del suicidio del cugino venticinquenne. Questa tragedia lo scuoterà al tal punto da diventare materia del suo primo romanzo.
 
Sempre nel ’59 su interessamento di Pasolini pubblica su “Botteghe oscure”, rivista curata da Giorgio Bassani, il poemetto La croce copiativa scritto nel 1957. Esasperato dalle continue bocciature all’università e dagli scontri con il padre, nel 1961 si trasferisce a Roma in cerca di “pane e libertà”. Qui vive precariamente presso degli affittacamere scrivendo recensioni per il quotidiano romano “Paese Sera”.
 
Frequenta con moderazione l’ambiente letterario romano, soprattutto amici di Pasolini, tra i quali Attilio Bertolucci, il figlio Bernardo ed Enzo Siciliano. Con questi ultimi partecipa ad un concorso per programmisti RAI, supera sia le prove scritte che quelle orali ma non verrà assunto per mancanza di idoneità fisica.
 
Nel 1962 ottiene un incarico professionale presso la casa editrice Longanesi per un periodo piuttosto breve, contemporaneamente inizia la sua collaborazione alla pagina culturale de “Il Giorno” che durerà fino al novembre del 1963.
 
Nello stesso anno si trasferisce in un piccolo appartamentino acquistato per lui dal padre nel quartiere Montesacro. Qui si dedica alla stesura già avviata del suo primo romanzo Rodrigo. In questi anni si dedica inoltre alla revisione delle sue poesie che, in un’edizione comprendente componimenti poetici scritti fino al ’62, riuscirà a pubblicare nel febbraio del ’63, sempre con il titolo di Allergia presso la casa editrice Garzanti. Pochi mesi più tardi, in maggio, viene pubblicato sempre da Garzanti anche Rodrigo. Nell’agosto del ’63 vince il premio Viareggio “opera prima” nella sezione poesia. Nell’ottobre partecipa a Palermo al primo convegno del Gruppo ’63 dove legge un capitolo del suo nuovo romanzo, iniziato nel dicembre dell’anno precedente e ancora in fase di elaborazione. Con l’adesione al Gruppo 63 si rovinano irrimediabilmente i rapporti con Pasolini, mentre inizia a frequentare Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani e stringe una profonda amicizia con Antonio Porta, testimoniata da un breve e fitto carteggio. Nel 1964 partecipa in veste di spettatore al secondo convegno del Gruppo 63 che si tiene a Reggio Emilia.
 
Nel 1965 è costretto a ritornare a Jesi a causa dell’improvvisa scomparsa del padre e dalla necessità di proseguire l’attività commerciale ereditata insieme al fratello.
 
Nell’aprile del 1965 decide di pubblicare Il gazzarra presso la casa editrice Feltrinelli, casa editrice ufficiale del Gruppo 63, causando la definitiva rottura con Pasolini. A settembre, nello stesso mese dell’uscita de Il gazzarra, partecipa al terzo convegno del Gruppo’63 a Palermo in cui si discutono le problematiche del romanzo sperimentale. Torna dal convegno deluso per la tiepida – in alcuni casi assente – attenzione dedicata al suo romanzo.
 
Deluso dalla critica, dal mondo letterario in genere e da quello editoriale che pensa all’opera letteraria solo in termini di mercato, decide di ritirarsi dall’attività di scrittore e dedicarsi esclusivamente alla sua attività commerciale nel settore dei prefabbricati edilizi. Nel 1966 inizia a studiare sistematicamente la lingua inglese; nel luglio-agosto dell’anno successivo soggiorna a Londra per perfezionarne la conoscenza. Nella primavera del 1968, sentendo il commercio come una costrizione alla sua vocazione letteraria, lascia Jesi e torna definitivamente a Roma dove inizia l’attività di traduttore dall’inglese. Traduce per lo più testi di psicologia e antropologia per la casa editrice Astrolabio dell’editore Ubaldini di Roma, tranne un romanzo di Christine Brooke-Rose: Tra, pubblicato da Feltrinelli nel 1971. All’insaputa di tutti inizia la stesura di un nuovo romanzo Trunkful. Scrive i primi tre capitoli ma, probabilmente viene interrotto dalla morte che arriva improvvisa, nel sonno, nella notte del 20 novembre 1974, nella sua casa di Roma. La salma viene traslata due giorni dopo nel cimitero di Jesi.
 
Nel decennale della scomparsa il Comune di Chiaravalle gli dedica una mostra documentaria. Nel 1986 Massimo Raffaeli ne cura l’epistolario che dà alle stampe insieme ad altri inediti rinvenuti nel Fondo di Ferretti conservato presso il fratello Maurizio. Nel 1992 viene ristampato Il gazzarra con prefazione di Alfredo Giuliani (Firenze, Ponte alle grazie) e nel 1993 a cura di Massimo Raffaeli viene ristampato anche il primo romanzo (Ripatransone, Sestante).
 
Nel ventennale della morte di Massimo Ferretti viene a lui intestata la Biblioteca Civica di Chiaravalle e viene stampato un catalogo delle sue opere a cura di Francesco Scarabicchi (I passi consegnati, Brescia, Edizioni l’Obliquo). Sempre nel 1994 viene finalmente ristampato, per le edizioni Marcos y Marcos, anche il volume Allergia con postfazione di Massimo Raffaeli. Nello stesso anno Giorgio Manacorda pubblica una scelta di lettere inedite del suo ‘periodo romano’ nell’annuario Poesia’94 edito da Castelvecchi.
 
Nel 1997 a Chiaravalle viene rappresentata per la prima volta una riduzione teatrale delle opere di Massimo Ferretti a cura di Antonello Nave intitolata Sopra il cuore. Nel 2005 esce la prima monografia a lui dedicata dal titolo Fuori dal coro. L’opera di Massimo Ferretti scritta da Elisabetta Pigliapoco per la casa editrice peQuod di Ancona.
 
Opere
Raccolte di poesie
Deoso. Rappresentazione poetica (Siena, Edizioni Maia, 1954)
Allergia. Prefazione ad una giovinezza (Jesi, Tipografia Civerchia, 1955 – Ristampato con Garzanti, Premio Viareggio “Poesia, opera prima”, 1963)
Romanzi
Rodrigo (Milano, Garzanti, 1963)
Il gazzarra (Milano, Feltrinelli, 1965)
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