IL CATALOGO DI UN SOPRAVVISSUTO
“L’acqua al cervello è una foglia”. Titolo strano, un’espressione di fuga e di ritrovamento. Nacque il 26 luglio di non so quale anno, uno degli ultimi.Scappato, senza casa, la sosta sul muro di una fontana di campagna, l’acqua sulla fronte con lievità, il nudo e l’ipnosi. Un tardo ritorno nel sangue, nel sangue alle dita. Dino Campana diceva questo. E questo le voci gorgoniche continuano a replicarlo”
Questo mi scrive Alfonso Guida circa la sua ultima fatica “L’acqua al cervello è una foglia” corposo esercizio poetico di madrigali edito recentemente da LietoColle. Libro che consiglio per la sua incessante proposta “fotografica” che avvolge in un ritmo sempre vigile e alto. Libro che commuove per la sua netta “geografia” ergendosi a catalogo di un sopravvissuto, in questo quadro “biviale” che sbanda tra territori di una parte d’Italia, la Lucania, rimasta nel limbo della propria inerzia. Una tra le peculiarità migliori di Guida è che la sua ossessione non ha ridondanza. Non stanca, alla lettura, la premonizione del poeta, poiché si nutre di un territorio fertile e crudele. È piuttosto una preghiera ferma sul precipizio, la sua poesia, oscillante tra il perdono e il desiderio, quasi necessario, di abbeverarsi alla fonte del male. Alfonso Guida nomina, come in un rosario, i luoghi delle sue morti quotidiane. Lo fa con parole secche, catalogando ciò che vede, ma soprattutto ciò che sogna, o che si svolge nel parallelo della miserevole vicenda umana. Lo fa con un ritmo che tende al prosastico, sempre per via di quest’ansia barocca, che condensa comunque il verso e lo fa elegia, parola annunciata per davvero, che si stacca per essere evocazione e non solo enunciato. Allora ecco che le cose, le forme umbratili, i paesaggi intravisti diventano chiari. Il bosco di Guida prende respiro e ci offre immagini di altri tempi e di altri segni, attraverso la periferica di un occhio lucido, aprendo la vista su di un tempo fatto di elementi naturalissimi e originari. E proprio l’origine ciò che in Guida pare non avere mai riposo. Lo scavo allora si fa inderogabile, ogni momento è assoluto, la pregnanza del mistero ramifica finanche la situazione più ordinaria. Il tutto avviene in un pensiero “universale”, fatto di fitte voci, in un dialogo presunto con “l’altro”, come se Guida ci parlasse da postumo di se stesso, da un altro territorio, come se dialogasse appunto con i morti, i suoi cari morti, i poeti e le persone che si sono tanto amate e che si mostrano intermittenti, vicine e lontane allo stesso modo. Il palpito è quello di una mente vacillante ma aperta al lutto costante della “transumanza psichica”. Dove per ogni nuova scoperta, c’è un addio irriverente. Una poesia vitale, quella di Alfonso Guida, e nuda, che non offre scampo dalla vita, proprio perché il solo scampo da questa è la vita stessa.
Antonio Bux
Sinossi
(…) La Sapienza grida: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua
opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della Terra. Quando
non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima
che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la
terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando Egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un
cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando
stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non oltrepassassero i confini, quando disponeva le
fondamenta della Terra, io ero con Lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a
lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie fra i figli dell’Uomo (…).
Libro dei Proverbi
EPPURE DOVREBBE TOCCARTI QUESTA
luce gioiosa, il sole, il fiume, il bosco
quando un riflesso argentato è il suo inizio.
Così comincia la preghiera. Un suono
di pietanze asserragliate all’interno
di una tovaglia cerata. E il corniolo,
l’impazienza notturna del corniolo
sporge da una porta, infittisce il cielo
con le foglie rosse e i rami ghiacciati.
Ci siamo perduti. E io non trovo pace,
parola, non trovo strada. Mi accerchio.
Di una mente contrita, convulsa. Tu
puoi dire: felice è il sonno dell’alba
perché il buio non tramonta. È l’eterno
che a sera, in festa, esegue la caduta.
POTREI DIRTI QUALE RICORDO SFUGGE
quale romanzo abbarbaglia il notturno
di ieri. Al telefono parlavi di altre
cose, non quotidiane, ma straniere:
tutto il rovesciarsi del cielo sulle
rose dell’orto e nel pellegrinaggio,
da te a me, una testa violenta, azteca.
Avrei chiuso se non fossi stata tu,
mia madre, a raccontare queste fiabe
di rinuncia ospedaliere. Hai mangiato?
lo chiedi sussurrando, sciogliendo la
voce nel piombo del primo fraseggio.
Ti rispondo che le patate muffe,
bollite non piacciono ai morti e che allo
specchio gli occhi non riescono a guardarsi
l’un l’altro. Anch’io sono straniero e cieco.
Come vedi siamo in due e uno è il paesaggio.
PORTAVO UN GIBUS NERO
quando era tempo di gramaglie e fieno
nel vecchio forno pubblico in via Piave.
Ci si alzava alle quattro.
Col pane azzimato e il lievito scuro.
Sono tornato a sognarlo stanotte.
Portavo un gibus nero.
Nero era ogni oggetto, lo sguardo, il volto.
Le lamentatrici funebri uscivano
presto. il grembiule di farina e zolfo.
LE GRATE, IL SENSO DEL TEMPO, L’AMMONIACA
scivolosa e tu che guardi l’antenna
spezzare un cielo rosso.
Le fiamme al lebbrosario, le sterpazzole,
tutto il falasco, terra nera e bionda
d’estate, quando torno
dallo Jonio a Terramozza,
spoglia e unta, occhieggia a est d’una barbabietola.
SULLE IRSUTE SUI LOGGIATI FIORISCONO
Salvia e ruta. Siedo sempre oltre il cespo
del rosmarino fermo
come una statua al crocevia salmastro
dell’eterno, che cade a precipizio
prima di farsi tempo.
Stasera una cincia si
spulcia le ali sotto un ramo di quercia.
CI SIAMO QUIETATI IN UN TEMPO CHIUSI
per non dire addio né affogare l’acqua
tra due pasture. E l’Angelo commuove.
Perché è il segno di luce che rapisce
le mani o il cieco assottigliarsi ansioso
di una mente col pensiero spezzato.
Sorge l’età del labirinto muto
dove anch’io sarò presto alto o smarrito.
Lungo è il paradiso che quaggiù affiora
se un precipizio calmo urta la soglia.
GELIDO È IL FUMO OCRA DELL’ACQUA. ANDAVO
per crepacci. E i pioppi e l’ombra dei miei occhi
striavano d’ospitali rimembranze
la notte che sarebbe giunta a forza
di pietra sul rossore dei miei polsi
sgranati. Cerca in questa ora di pace
la memoria, l’esultanza, la diaspora,
l’erba nel cielo, le radici al viso.
Hai ragione, Antonio: Guida è un poeta.
🙂 sì. lui sì. 🙂 grazie per il passaggio!
C’è chi vive la poesia come il luogo della sua morte. C’è chi fa la conta dei superstiti, nominando umilmente i cocci, dopo la propria esplosione. C’è chi vede l’invisibile, ed elenca le cose, le riempie del proprio vuoto. C’è chi vigila, resta allerta, chi fa attenzione alla penombra. Perennemente in attesa, sull’uscio. C’è chi vibra nel silenzio. È una sorta di scambio elettrodinamico, di energie che si condensano e mutano. C’è chi con umiltà appassisce nel proprio corpo, la sua parola è un lurido escremento, il testimone di quella sparizione. Ma da quell’escremento nasce una voce nuova, per chi vorrà, l’eco di una testimonianza radicata e indelebile. L’ombra dei vocianti, di chi ha saputo dare voce alle pietre. Alfonso è uno di questi vocianti. Sottovoce lui ci racconta il suo mondo, lui, il Caronte dei sassi di Matera. Lui fa la conta dei suoi morti, ci dice il cimitero quotidiano che si apre al suo occhio di poeta.