da QUADERNI DI VILLA NUCCIA (1959-60)
XVI
… Ma passeggiando di nottetempo
odo questo cinguettio
e un’allodola è come una fronda,
una luce calata dal desiderio del cielo.
Ma, vedi, sono costretto anch’io
e ai piedi, umile, è una tomba
e quando spira vento autunnale
sono vento anch’io.
OP I 242
LVI
; e i mattini arsi dal gelo.
Ora è pallida terribile una distanza
e lo sussurrarono
lo bisbigliarono a volte
i morti in una luce continua che li abbaglia,
essi cosí sotterranei, pallidi a volte
in una stanza
CXI
ma ti vorrò ghermire
e poi dire nel sonno: quel bianco
stanco sereno viaggio: ma già la cinta
era a metà cinta dalla rupe del sonno
quel sereno dilagare di là.
Forse sono in sonno e in sonno sonoro:
una città che naviga a stormo
e di là non vede nessuno.
OP I 344
CXXXIX
ma acini, questi fili di olio
e questi prati emersi: vedi non sono in fondo
piú che un flutto e questo precoce
andirivieni; ma già lo stento
vivere è ciò che porta
in due alla luce ….
Questi colori a stormo
colorano dunque le tue parole
come il dolce breve fiato dei morti
che nel fondo delle acque traspare;
e fu un denso andare in giú in due.
OP I 374
CLIV
questo disco che ora irrora tacito di luna
e tu calmavi col sangue qualunque ebrezza,
era di un’ala
la cui lievità vedi cadere nel sogno ….
a partire da qui ora si danza,
ora si sogna.
OP I 389
da SOGNO PIU’ NON RICORDO (1956-58)
ESITA QUALCUNO DI QUESTI FILI
Esita qualcuno di questi fili
d’aria sospesi quando sulla rada
assolata foglie tristi d’ombra
sparge l’autunno.
La morte
ti si addice cosí bene
come se, dietro la vetrata glabra
delle cose, a parlarci,
stesse col suo viso povero
il viso povero
di ognuno.
OP II 154
I BACI, LE PERSIANE VERDI
I baci, le persiane verdi,
verdi alberi modesti, verdi mobili intorno
sulle piagge dell’orto.
Trepido è un disegno sui tetti.
Una corolla scivola su persone morte.
Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio,
era colpo di un sogno dischiuso,
sogno chiuso leggero di una morte.
OP II 271
da AVARO NEL TUO PENSIERO (1955, inedito)
RICORDO COSA FOSSE SIMILE ALLA RUOTA
Ricordo cosa fosse simile alla ruota
e sebbene non più ricca
quanto nei raggi suoi era lievemente smossa,
era già vera una giornata timida
indifesa.
Era vera l’opaca
sua umile origene.
Una festa
appariva già dentro una stella.
SE PASSIBILE L’ECO
Se passibile l’eco ai confini
era invisibile segno e straniero,
dubitato da sempre, passo anch’io
dentro una lievità ombrosa, carnosa
canora rara di linee.
da COME IN DITTICI (1954-56)
RIMANE FRA ME E TE
Rimane fra me e te questa sera
un dialogo come questo angelo
a volte bruno in dormiveglia
sul fianco. Non ti domando
né questo o quello, né come
da materne lacrime si risveglia
di notte il tuo pianto.
Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.
Non l’eco rimbalza
due volte sulle rocce, su questo
prato, ove sono rosse, e, di rosso
in rosso, è vano il pallido velluto
ora rosa ora smosso.
Non si parla né triste né lieto;
e presto o tardi, perché a fior di labbro
gentilmente nel filo tenue dell’erba
tristemente lacerando si risveglia
la tua sera accanto, dolcemente
io ti domando.
OP I 3
A MOLTEPLICI SUONI
A molteplici suoni, mutate le penne
le vene d’aria, cosí chiara
avanza, da tempo, sul tempo della gioia
una chioma d’alberi varia. La cortina
è del sonno. Un atomo è il silenzio,
atona un’ignota rimembranza e, domani,
non più nuova – sensitivo! – guarda
nello splendente fulgore
la tua stessa aria. Un ghirigoro
cupo è il tuo corpo, il tuo grido
che passa, ignota (a gruppi uguali
verrà il suono) un’ala di un’isola
e, riesumando intorno, un cielo
già plumbeo. Intera
rianimata s’addentra un’ombra amata
e stanca nella stessa sfera
e ti rimanda al giorno opaco
del suo spesso regno.
Cadono a terra mutilate clemenze
al suo piede e sul fianco (la turbolenta
onda s’addensa) la spiaggia avara
solitaria a settembre, la distesa
violacea, un punto assiduo
ombroso del fluire cui si soffermino
chiari i tuoi passi
turbinosi come la febbre
e, perché non siano di noia
grigi gli inizi, i viali altocinti.
Ora so a memoria i suoni
nel cerchio che agevolmente sgorga.
Volenterose turbe s’alternano.
L’eco non sa parlare così triste!
fermamente si sdoppia e ti sorprende.
L’eco non sa parlare, così triste!
è giunta alla sua fine
e ti opprime gelida tanto. Dentro lo scheletro
nuda è la sua gola.
Hai gustato mentalmente
la velleità delle cose, dell’erba arida
mutevolmente rapidi i frammenti.
Sai quanta infanzia
era uno screzio. Ritorna allodola.
La vena non è piú nuda, non e piú sola,
non piú s’affolla allo stesso piede.
Chiusa nube odorosa sul tardi
era uno screzio. Ritorna allodola
incostantemente nel verde intrico dei rami
e dalla pioggia
si difende.
Cosi bruca, a volte,
tristemente filtrando fili di raggi
solitari il sole cui si soffermi già una cima.
S’affina in mutate vicende, in lievi
fievoli aliti freddi.
Mutevole
ha su immense acque ed ali
distesa l’immensità dei monti,
ferma, una linea.
OP I 5
PERPENDICOLARMENTE A VUOTO
Perpendicolarmente a vuoto
tracce erano, limiti, e da questa parte
il vento, in prati ove non si odono
cose di cui non mi ricordo;
e sai quanto noioso un ramo
era e mi guida e dall’aria
mi divide che non amo. Più non riconosco
una larvata presenza di essere,
un’usanza di crescere e non basta:
se mi soffermo un poco un soffio
era già troppo e il resto. Sinuoso
e sveglio un vano respiro d’albero
corrompe me pure in una dolcezza varia.
Una levigatezza che apparve nello spazio
soffre il vuoto, il disordine, il discendere
dell’età morente. Un alito ricrebbe nella guazza.
I sottintesi richiami un respiro d’aria,
una solitudine già odono.
Nella nebbia, per quanto so
ora, come in questa, è partita
la tua presenza dalla grazia
come la sofferenza dalla veglia
del suo volo.
OP I 31
SOGNI
Sogni. La speranza del tempo
che fugge innamora. Il tepore
è una promessa non nuova. Fuggi!
La chiara atona scorza di alberi
al supplice colora una cara curva
di ignote distanze, una chiara
corsa di curve nel sole. Ritorna!
Odi l’unica voce che non si frantuma
scritta a caratteri grandi
dentro un’antica dimora (a valle
è la notte, la morte già angelica
e bruna). Contratta, esatta
monotona e scura mentre ti scrivo ti sfiora.
Remota immota tramonta la luna!
Un tenue rivolo scivola, trema mesta
una luce alla gola. Non so che spiraglio
che fievole linea agevolmente rada,
te morta, una siepe, la sete delle chiome
d’aria già bruna che varia.
OP I 39
IO VEDO L’IMMAGINE
Io vedo l’immagine e l’intento
assiduo. Non so se dentro
era una sfera o il vento. Da queste parti
perde coi suoi blu occhi finti
ai piedi il monte un fiotto
che tu calpesti. Lacera
una voragine un messaggio era di sangue,
una pietra era di estinti. Lo stradale
era incline al margine. Era arduo
un ordine e, sebbene le pendici
appartenevano ad una chiostra uguale,
lo scoppio di una stella era maggiore.
Di seta finta la terra saliva
erma a una festa aerea di baci
in un lume di opaco desiderio
cinta. Dentro un alone
spirava il calore.
OP I 84
da MA QUESTO… (1950-54)
ABITI, SVOLAZZANTI CAPPELLI
Abiti, svolazzanti cappelli
e guanti portano e l’alito
di una canzone che batte in fronte
e il mesto bagliore degli occhi
trattiene; e se i venti
sono senza confine, ecco,
sulle tegole rosse, appaiono
leggere le muse; e cime
e città fantastica stanno con gioia,
ora che olio versa
da una vana lucerna una vana fanciulla
e paesi persi del tempo
in una luce che li smorza gemono
in una vana rincorsa.
OP II 32
ASSIDUE, COME GEMME PURE
Assidue, come gemme pure,
lagrime dileguano. Aduna
il chiarore sul terreno di sterpi
stretto, folto come una boscaglia, la volpe
che uno screzio d’oro estenua e abbaglia
al filo tagliente della luna, ed occhi
ti hanno guardato in faccia
perché l’opera risplende. Divelta
a una fontana è un po’ di acqua fatua
vana e sono arsi gli spazi
esili dei colli, grigie le foglie
nell’aria che s’allontana. Timide,
sparse di sudore gelido le soglie,
l’arcuato vivere il sudato specchio
umido raccoglie, la morte in cui ti specchi.
Falsa la riga veloce il tornio
e quanto la volontà di vivere
di crescere tarda è a rispondere
vedi umida nei secchi.
OP II 48
MA QUESTO
Gli estri, le cose esatte,
le monotone cose poi, ma questo
puoi estendere alle nuvole,
quando, rarefatto il tempo, il vuoto
è un rudere di passaggio.
OP II 78
GUARDA A LATO
Guarda a lato. Non più risuona
il plinto giallo. S’inacerba
il rumore non più giovane.
Non giova più sull’erba la memore
dipinta lapide di cristallo.
A partire da qui non più lenta
sonora scorre l’origine
ad alta voce o la cima
e si sfogliano i giacinti.
Tu giungi! L’ora veloce,
l’odore a stella, queste piccole
idee come un talismano
nelle isole e lo stretto necessario
cadono.
Marcisce un flauto
alla fine debole di un anno,
il riso del seno nell’ala vorace
al brusco secco tonfo del tempo
dell’aria abbassata.
Ieri come oggi sonnolente
anella erano e, nel viso sparso
secco confuso, la fine aerea
ferma di un’altra giornata.
OP II 96
E PER POCO ODO
Se per poco odo e tolgo a la voce
non mi resta che un’immagine
per finire. Fu scaturigine
quieta la tua vita come acqua,
cosí partecipe esigua la spiegazione.
Il taciturno lento svolgersi delle stagioni
ti si addice. Non so in quale artefatto
rarefatto moto dei monti o pressoché simile
umile era fatto alle origini. Pure potevano
svilupparsi il silenzio, una migrazione
gelida, un puro spazio
in pure pause di ombre.
Uguale lievita e riecheggia la brezza
e risponde. Il mattino sul colle inclemente
era la causa dei sogni.
OP II 139
da PAROLE DEL TEMPO (1933-35)
LUNA
Luna
dall’infinita cecità dei monti
si sporge: risucchio,
richiamo di cose eterne
si rinnovano nella
labilità momentanea passeggera.
Uno spirito delicato
la tocca, non è il mio,
che tutto circonfonde.
PT 164
L’OPERA
L’opera
non cade mai,
non si frantuma,
rimane eterna.
Gioiosa o mesta,
entusiasta e molteplice,
rimanendo immutata
ai colpi del tempo,
è testimone
di un tempo immortale.
La sua nuda fronte
rimane ferma, soda
sotto i raggi del sole che l’indora
fra i pollici fissi dell’universo.
Da essa a volte cadono scintille
che indorano la bruna chioma
dei fanciulli che vanno a scuola
svegliandoli dal letargo
nel primo entusiasmo.
PT 179
da POCO SUONO (1933-35)
ESSENZA DEL POETA
Sono il solitario origliare
di ciò che dorme.
Perciò scrivo
Colla tacita mano,
l’occhio rivolto ai sonni.
PT 96
da 25 POESIE (1932-33)
CIELO DI CENERE…
Cielo di cenere o sanguinoso
come una macchia di sangue,
timido o capriccioso
come anima che langue
aperta all’infinito.
Io vedo pensante
passare dentro un mito
nell’anima sognante
un sogno che s’avvera.
Un volto perduto in due mi guarda
tenue com’è una sfera
sfuggita che s’attarda
e che si riempie di dolore.
Misuro e traccio del volto
una forma angelica in amore
nel mio segreto sepolto.
Esser lo stesso per tutti continenti,
l’inchinarsi del moto cui soggiacciono
sempre i più lontani venti
è come un eremitaggio.
Sognare quel che si sogna di vela
in vela verso i confini dell’oceano
è come se sperduta nave anela
verso altezze cui le rive traggono.
Anche meraviglioso
è il cielo della vita.
L’istinto suo grandioso
vergine m’invita
verso una folata di vento
attinta a profondità abissali
per un nuovo combattimento
per nuove più fulgide ali.
PT 50
Un velo di cinta
di una città immobile appare
che si stende a perdita d’occhio.
Abita ivi una folla
di popoli uraganici
fuorviati dall’abitazione loro,
la cui eco profonda
penetra per antri e caverne.
Sono uomini senza alcuna evoluzione,
senza alcuna nozione
del tempo e dello spazio
o della profonda notte
che si stende continua su di loro.
Soliloqui altissimi avvengono.
BIOGRAFIA
Lorenzo Giovanni Antonio Calogero nasce il 28 maggio 1910 nel piccolo centro di Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria, da Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Terzo di sei fratelli, Lorenzo inizia le scuole elementari a Melicuccà e le conclude a Bagnara Calabra, dove vive presso gli zii materni. Nel 1922 la famiglia Calogero si trasferisce a Reggio Calabria, dove Lorenzo frequenta prima l’Istituto Tecnico, poi cambia corso di studi conseguendo la maturità scientifica.
Nel 1929 la famiglia Calogero si trasferisce a Napoli per avviare i figli agli studi universitari. E’ di questi anni la scrittura dei primi versi, che legge solo alla madre. Lorenzo inizia ad Ingegneria, ma l’anno successivo decide di cambiare facoltà iscrivendosi a Medicina. Nel 1934, per ristrettezze economiche, la famiglia Calogero è costretta a tornare in Calabria. Segue con profitto gli studi ma contemporaneamente legge i poeti e scrive: in questo periodo compone buona parte dei versi che formeranno le raccolte 25 Poesie, Poco suono e Parole del Tempo. Comincia a manifestare le prime patofobie.
Di formazione cattolica, segue la scena letteraria che si raccoglie intorno a “Il Frontespizio”, di Pietro Bargellini e Carlo Betocchi, ai quali invia le prime poesie con la speranza che vengano pubblicate. I versi gli vengono però restituiti, allora scrive a premi letterari e riviste spurie, vuole pubblicare ad ogni costo. Nel 1936 esce a sue spese il primo libro, Poco suono, presso Centauro Editore. Nel ’37 si laurea in Medicina, ma continua la corrispondenza con Betocchi, che gli promette di pubblicarlo ne “Il Frontespizio”; la pubblicazione non avviene ed egli ne trae la conclusione che il suo destino non è quello del poeta. Inizia un lungo periodo di distanza dalla scrittura, in cui non v’è traccia di tentativi di pubblicazione o contatti con il mondo letterario. La sua salute è precaria, tuttavia consegue l’abilitazione e nel 1939 inizia ad esercitare la professione medica in diversi centri della Calabria. Ma tende a tornare a Melicuccà, a rifugiarsi dalla madre, con cui intrattiene un’intensa corrispondenza. E’ sempre più instabile. Nel 1942 tenta per la prima volta il suicidio sparandosi in direzione del cuore. Viene salvato a fatica. I fratelli sono in guerra, fa il medico sempre più a malincuore: “sono vissuto nella mia professione come se scrivessi versi”.
Nel 1944 inizia una lunga corrispondenza epistolare con una studentessa di Reggio Calabria, Graziella, cui seguirà un fidanzamento di cinque anni. La sua vita è sempre più caotica, abbandona i posti di lavoro, si rifugia dalla madre con più frequenza. Si getta in tutte le letture: filosofia, scienze biologiche, matematica, teologia, poesia. Rompe con Graziella ma non la dimentica, e tenta invano di riallacciare il rapporto attraverso lunghissime lettere disperate. Ha ricominciato a scrivere: dal 1946 al 1952 compone le poesie poi incluse in Ma questo… e Come in dittici. Dal 1951 al 1953 invia i suoi manoscritti a molti scrittori, poeti, uomini di cultura, l’esito è sempre negativo. Nel 1954 invia dattiloscritti all’editore Einaudi, da cui non riceve risposta. Decide allora di partire per incontrare Giulio Einaudi personalmente, ma va a Milano e sbaglia redazione. Giunge a Torino ma Einaudi è fuori sede e i suoi scritti non si trovano. E’sempre più sfiduciato ma continua a scrivere a editori e riviste , che gli rispondono evasivamente. Lo stesso anno riceve l’incarico come medico condotto a Campiglia d’Orcia, in provincia di Siena; qui scrive in soli undici giorni Avaro nel tuo pensiero, che rimarrà inedito. Dopo appena un anno, una delibera del consiglio comunale lo dimette dall’incarico di medico-condotto, così nel 1955 si ritira definitivamente nel suo paese. Riscrive a Einaudi che risponde, ma negativamente. Nel settembre, sempre a sue spese, pubblica Ma questo…, presso Maia.
Scrive anche a Betocchi, di nuovo dopo vent’anni, chiedendogli di pubblicare con Vallecchi. Nel gennaio del 1956 esce la raccolta Parole del tempo, che contiene 25 Poesie, Poco Suono, Parole del Tempo. A causa di un peggioramento delle sue nevrosi viene ricoverato nella casa di cura “Villa Nuccia” a Gagliano di Catanzaro. Tornato nel suo paese, scrive invano a numerosi critici e poeti per farsi recensire Ma questo… Ne spedisce una copia anche a Leonardo Sinisgalli, accompagnata da una lunga lettera in cui chiede la prefazione per un nuovo libro che sta per essere pubblicato “anche se dovesse dirne tutto il male che si può immaginare”. Inizia così il rapporto con chi invece sarà il primo a riconoscere le sue qualità poetiche, e che gli sarà amico fino alla fine. Nel mese di settembre esce Come in dittici con la prefazione di Sinisgalli. In seguito alla morte della sua amatissima madre, però, avvenuta poco dopo, viene nuovamente ricoverato per un tracollo nervoso a “Villa Nuccia”. Si innamora di un’infermiera, Concettina. Tenta nuovamente il suicidio recidendosi le vene dei polsi.
Nel 1957 vince il premio letterario “Villa San Giovanni”, conferitogli dalla giuria presieduta da Falqui, e composta da G. Selvaggi, G. B. Angioletti, G. Doria, S. Solmi. Sinisgalli presenzia alla premiazione. Nonostante il prestigio del premio non riceve nessuna proposta editoriale, che cerca disperatamente, sempre più stretto da una ingenerosa incomprensione. Mangia pochissimo, sostenendosi con sonniferi, sigarette, caffè. Tra il 1956 e il 1958 scrive le novantanove poesie della raccolta Sogno più non ricordo. Viene ricoverato nuovamente a “Villa Nuccia”. Nel 1960 si reca per alcuni giorni a Roma, dove conosce Giuseppe Tedeschi, che racconterà il loro incontro nell’introduzione al primo volume di “Opere Poetiche”, pubblicato postumo. La sua irrefrenabile necessità di scrivere si intensifica, scrive i 35 Quaderni di Villa Nuccia, così come li intitolerà Roberto Lerici, editore di “Opere Poetiche”, che costituiscono forse la sua più alta produzione letteraria.
Trascorre gli ultimi anni da solitario e sventurato poeta nel suo paese natale, consacrato alla poesia, corteggiando la morte.
Il corpo del poeta senza vita fu trovato nella sua casa di Melicuccà il 25 marzo 1961. Nell’ultima pagina di un quaderno trovato sulla sua scrivania, è stata trovata quella che forse è la sua ultima poesia, “Inno alla morte”. Un biglietto trovato accanto al suo corpo, recita la frase:
“Vi prego di non essere sotterrato vivo”.
Nel fascicolo di aprile 1961 di “Europa Letteraria”, Giancarlo Vigorelli pubblica alcune sue poesie con note di Leonardo Sinisgalli. Nel 1962 con l’uscita del I vol. di “Opere Poetiche” in un’elegante edizione della collana “Poeti europei” della casa editrice Lerici, esplode il “caso letterario Lorenzo Calogero”. Centinaia di articoli della stampa italiana e straniera lo definiscono “nuovo Rimbaud italiano”. Il clamore dura quasi ininterrotto fino al 1966, quando, quasi subito dopo la pubblicazione del II vol. di “Opere Poetiche,” la casa editrice Lerici pone fine alla sua attività editoriale. Per anni è stato atteso l’ultimo dei volumi della Lerici che avrebbe dovuto contenere Avaro nel tuo pensiero, ancora oggi inedito, insieme ai circa 800 quaderni manoscritti, fittissimi di liriche, numerosi scritti in prosa e lettere con poeti, critici, editori, intellettuali. Attualmente il corpus inedito è composto da più di 15.000 versi che attendono un’adeguata collocazione nella più alta letteratura del ‘900.