UNA MEMORA D’ALTROVE
Michele Ranchetti (1925-2008) è stato uno dei maggiori storici della chiesa e delle religioni. Di questa disciplina è stato docente universitario a Firenze dal 1973 al 1998; si è anche distinto come poeta, pittore, saggista e traduttore dal tedesco. Nella sua opera di consulente editoriale e traduttore, ha curato l’edizione italiana delle opere di Wittgenstein, Freud, Celan, Rilke, Benjamin; ha curato inoltre, per la Arnoldo Mondadori Editore, l’edizione della “Bibbia” nella classica traduzione di Giovanni Diodati. Importante è anche la sua partecipazione alla vita della casa editrice “Quodlibet”, per la quale negli ultimi anni dirigeva la collana Verbarium, e alla vita culturale italiana e internazionale. Autore di tre raccolte di poesia (la prima pubblicata all’età di 63 anni), Michele Ranchetti ha vinto inoltre il Premio Viareggio nel 2001 per il componimento poetico intitolato “Verbale” e si è aggiudicato il primo posto nella XVII edizione del Premio di poesia Lorenzo Montano. Di seguito ripropongo alcuni suoi testi tratti invece da “La mente musicale” (Garzanti, 1988), la sua prima raccolta che comprende testi scritti tra il 1938 e il 1986 e che contiene alcune delle peculiarità tipiche della poesia ranchettiana; l’ossessione della morte, la sostanza della vita nel suo perenne, il ritorno verso l’origine, la vista della fede attraverso la lima del silenzio che scarnifica il senso fino a farlo briciola preziosa; segni dai quali traspaiono vivi e forti gli echi dei maestri (Celan, Rilke, Benjamin), già citati poc’anzi, dei quali Ranchetti ha curato le edizioni italiane e dai quali è stato maggiormente influenzato, dando però precisa matrice al suo dire, meditativo e riflessivo, tanto pregno quanto sfuggente, soffio di una memoria d’altrove sempiterna scolpita nella roccia della parola, qui scalfita, levigata fino all’estremo sussulto, fino al respiro fermo dell’esistenza.
Antonio Bux
*
Se alcuno cade e altri non risorge
è solo dentro il tempo: altrove
in un tempo diverso il morto porge
la mano a raccogliere il vivo –
ed è un’unica soglia che divide
l’etica dall’eccidio, la virtù dal vizio.
*
Agli ultimi la sola misura
del vivere è la conferma della fine
di chi li ha preceduti sul confine
fra cielo e terra nel gelo uniforme
della natura.
*
(…) come se tutto avesse
a durare per sempre in una fossa
o nella luce celeste, con questi
esseri amici vivi o morti, sempre
nel comune, paesaggio delle sorti
condivise…
*
Sai che eravamo, che siamo in attesa.
Di te, dal mare del diverso, dal premio
dell’assenza da noi. Quale percorso
è il tuo fuori di qui, di questa grotta
grembo diluvio di doveri, di propositi
sublimi, di lutti divini?
*
Atto di gloria la perdita del mondo
di condurre il corso, la perdita del senso
nell’approdo apparente.
*
Nell’arco di alcuni anni
giorni alberi stagioni e luci
albe e notti più una
che ancora dura e per sempre.
*
Dall’altra parte il vivo:
da questa parte tutto,
e tutti: ora
puoi scegliere ancora
di chi sei, sei vivo.
*
Il fatto è certo: ignote
le circostanze: il fatto
e certo della morte, oscuri
i modi e ad essi
va la fiducia
di sopravvivere. Per te
il mio tempo di vivere
è accaduto nel tempo: a te
al tuo vivere oltre.
*
La figura riappare: al posto
del teschio della capra o il carro
la figura vicina alla figura: non è molto.
Il segno del contorno sceglie il corpo
tra i legni e allo steccato
aggiunge il panno che riveste il nudo
scheletro vivo: gli arredi ricompongono
la storia ai nuovi spettri.
*
Corpo ed anima: corpo
(la superficie senza l’area, il cerchio
senza circonferenza), due
contro due, poi uno
fatto sublime senza ombra sopra
i due corpi distrutti –
e vivo, lascia sull’ombra
il progetto del limite ed a sé
predice arma il futuro (contro il vero).
*
In un resto, in un limbo, in una parte
privilegiata forse, perché libera
d’ombre che vivono, ma altrove
dal tuo fare quotidiano, dal progetto
di liberarti, liberare, e di compiere.
*
Fuori di te, del tuo senso
contadino del frutto
del lavoro di testa e della mano:
ma la mano che preme e non addita
la fatica di avere
presente il senno che deriva
dal fare e dal volere.
*
Un altro ha quel barlume
che dal tuo corpo sorge quando un altro
lo viene contemplando: egli non vede
oltre per sé, che del preciso assetto
di quelle membra è grato come a un segno.
Vive di nuovo quel tuo corpo al fine
di quel fine dell’altro, del tragitto
tra due che sono vivi e che per questo
fine mortale eterno muovono incontro.
*
Si apre tra la riva e il mare
un altro solco: non d’acqua e rena ma
come una quinta verticale che
ha nel profondo il vertice ed appare
in rotta verso il compito
la riva e il mare il gelo dello scoglio;
la natura alla luce
verticale del vertice s’appropria
del rigagnolo e il sasso
scopre nell’acqua la sua forma
e il colore.
*
Di questo non è data
ombra o memoria
né desiderio: si compie
ogni volta una volta, si crea
ma non per rimanere, emblema
cui riferirsi, è. come se
ciò che è stato si desse
ma non compie né avvera:
era, non è passato, è il dato
del presente e assente
ne è il futuro, vive
dell’acquisto e del proprio
dono di sé, è, verso l’unico (…)
*
Io non ho più paura: il vero è il vero.
A te l’intelligenza
delle cadute non conviene ma il caro
ordine delle ragioni, il sole sulla fronte
la natura dell’aria, della luce:
a me il vinto di cui volevo farmi
parte da te condivisa:
odi il cadavere, il suo senno.
*
Dove sono solo? In quale parte
di me si cela d’esser solo, coscienza
che contraddice chi l’interroga?
Fuori di me la natura, il senso
della storia, tragitto che mi incorpora
a una salita universale ma quanto
di me recano i figli non ripete, trasmette
ciò che già fui e io rimango.
di Michele Ranchetti, da “La mente musicale” (Garzanti, 1988)