LETTERA PER UNA DOMANDA DI PERDONO (Crocetti, 103, 1997)
L’esperienza ci ha strappati
l’uno dall’altra, amore;
l’esperienza ci ha rattristati
l’uno nell’altra, amore;
e il mio “tu” e il tuo “tu”
si perdono nel vento:
quale furtiva foglia
asciugherà il pianto del rubinetto?
Quale cotone assorbirà
il mio canto?
Io nudo come il cielo;
tu troppo densa, troppo carica,
troppo, troppo.
Sbaglio le parole e suono
come un peccato, come una percossa,
come un tradimento, come una pazzia.
E tu, se mi disegni a lungo,
mi perdi. Ritrovami
nel giuramento della sera:
io sono
il dèmone del dramma e della catarsi.
Ma per raggiungerti in purezza
dovrò mangiarmi le mani?
La tua bocca mi guarda e io svanisco,
insano dentro una perla
umida di nebbia.
Le tue mani mi dividono
e io scivolo
in un tempo di zanzare.
Resta solo di me il bicchiere
di questo seme sparso sul cuscino;
le radici di questa barba
che abbrutisce il cuore;
il grido di questa gola
che nessuna pastiglia addolcisce
e questa rovina che assapora
tutto il pudore che mi resta,
tutta la malizia che ho consumato
e tutto il canto.
Vieni, e credi di nuovo
che il mio corpo, sposo del tuo;
che il mio silenzio, padre del tuo;
che il mio canto, fratello
della tua amarezza
raggiunga il dio nel tutto che supplichi
e s’allontana.
Non ci sono più ossa, ma rose;
non ci sono più muri ma strade;
non ci sono più inverni, non ci sono:
tra poco è marzo, vieni,
camminiamo.
Dalla finestra
sale un buon odore di fiori,
dalla cantina sale un buon odore
di vino: non è questa, la vita?
Questo grido che mi interromperà
mentre scrivo il mio canto?
Le ciabatte calpestano: “Vengo”;
gli sportelli si chiudono: “Vengo”;
le bottiglie si stappano: “Vengo”.
E le voci? Che fanno le voci?
Cadono e invecchiano
E tu le seppellisci, lontano.
Ed io le riesumo, vicino.
E presto non avrò che tempo
tra i libri; non avrò che spazio
tra i vestiti; e sarò il tuo concetto
d’amore, debole, senza persona.
E cadere nel folto dei padri
e della madri, assaggiando la torta
del sacro e del profano.
Attendo che una porta si svegli,
e che un bambino reciti per me
la morte ossigenata, la fuga espiata,
la pietà saziata, la percossa dimenticata:
tu inseguilo al limite, tu
la casa che sale dagli inferi,
a perdonare se ho rubato,
se ho fatto violenza, se ho maltrattato
sopra e sotto
gli elementi e i punti insaziabili.
Ma basta un fiore che dubita,
per dare o ridare salute al disamore:
dubita forse che siamo? che parliamo?
La sua sapienza stagionale
è più forte dei nervi che leggi
nel gas della ragione, quando leggi
i tuoi discorsi disaccordi e mi telefoni
pallida e nervosa. E disfi
la maglia dell’abbraccio, la gabbia
che non suona, e stai zitta, stai
zitta. “Punìscilo” ti dice ancora …chi?
“Punìscilo”, “Puniscìlo”. E tu:
“No: sono stanca. Solo stanca
di vedere le mani, di ascoltare la voce,
e un poco stanca di essere me stessa”.
Io mi attuo. Tu vivi di stanze.
Io ti lascio. Tu ti lasci lasciare.
Io ti guardo. Tu ti lasci vedere.
Non guardi. Ma respiri. Respiri.
E osservo la tua statura,
allungarsi e calare; le tue braccia,
asciutte o insaponate; la tua testa
cerchiata. E sei profonda
come la disperazione.
Ma amo i fiori, per oggi;
e, per oggi sono un ragazzo tranquillo:
e posso renderti cenere, credo.
Ma vedi, ho digiunato, per te, per me,
per una pioggia e per molti baci.
Molti. Molti. Tuo.
da “Fratello poeta” (Lietocolle, 2012)
*
Poiché essi ci hanno indicato
i turbamenti della distruzione,
torniamo ai padri poeti, Eliot
Brecht, che ci hanno predetto
che il futuro è leggibile
soltanto se la mano impugna
una zolla di terra. E di questo,
in verità, non saremo troppo prodighi,
né avari in malafede;
perché il figlio avvisato in verità
in verità risponde.
*
Rimane questo celeste, questo azzurro
e questo rumore del cobalto: di noi
andanti per le vie segrete, grazie
e di nuovo ci saremo: per una luna
che sale la rocca a interpretare
chiaramente il destino e il ritorno,
come animali metafisici che fiutano
l’assenza di un bianco gatto.
*
Verrà il colore dell’ombra
a darci pace e giustizia d’anima:
lo sento che verrà, e sarà
più che una biga con tanti cavalli.
Né io vile sarò: sarà un segno
trovato nel libro tre volte aperto,
per tre volte chiuso, quando al Signore
tocca d’ungere d’olio il capo:
e la grazia d’un baleno su di noi,
sulle nostre parole temendo dette
sulle impaurite parole che non si fanno.
*
Questa fonte che lava la mia veste
ora tu la conosci, la devi consacrare:
e la fede tenuta alla massa della roccia rupestre
tu la devi svuotare nell’abisso:
in quel frastuono dell’acqua che non s’imbriglia
tu saprai di te stessa, mi ricoglierai
quando avvertendo il passo sino al punto,
al primo attimo io colga una fossile conchiglia.
Tu traversando lo spazio che ti allegra
saprai di me, della natura umana.
Ed io che allora uscirò di terra
mi farò la mia tana e la mia vela.
*
Di certe presenze di tensione
Baci. Ma nell’aria c’è una
malattia dell’Essere: la chiami
noia per ripetermi e quindi
evadere ogni possibilità di offesa.
La chiamo «mondo» e, rinnovandomi,
c’è questa splendida facoltà di intesa.
Giuseppe Piccoli nacque il 5 aprile 1949 a Verona. Seguì studi classici senza però portarli a termini, dedicandosi giovanissimo a scrivere poesia, prosa e articoli di critica letteraria per “L’Arena”. Nel settembre del 1981, in seguito a una ricaduta della sua malattia psichica, ferì il padre, che morì dopo pochi giorni, e la madre, che invece si salvò. Venne recluso nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia per un periodo di detenzione di dieci anni. In seguito fu trasferito in altri reclusori. L’ultimo che lo ospitò fu quello di Napoli dove, nel febbraio del 1987, si tolse la vita.
Giuseppe Piccoli pubblicò in vita due raccolte di poesie, Di certe presenze di tensione (Guanda 1981) e Foglie, con prefazione di Maurizio Cucchi, nell’”Almanacco dello Specchio”, 1983. Postumo è uscito, curato di Arnaldo Ederle, Chiusa poesia della chiusa porta (Bertani 1987). Una scelta delle sue poesie si trova in Cucchi, Giovanardi, Poeti italiani del secondo novecento (Mondadori 1990). Nel numero 103 di Poesia, Febbraio 1997, escono alcuni inediti a cura di Arnaldo Ederle. Nel numero 213 di Poesia, Febbraio 2007, escono alcuni inediti sempre a cura di Arnaldo Ederle mentre nel 2012 esce, nella collana I giardini della minerva, diretta da Maurizio Cucchi per LietoColle, “Fratello poeta”.