*
Penso che in questo momento
nell’universo forse nessuno mi pensa,
e che io mi penso da solo,
e se adesso morissi,
nessuno mi penserebbe, nemmeno io.
E qui l’abisso comincia,
come quando prendo sonno.
Sono il mio solo sostegno, e mi detraggo.
Ricopro la vita d’assenza, la tappezzo tutta.
Chissà, sarà per questo
che a volte pensare ad un uomo
è come salvarlo.
*
Ognuno se ne va come può,
alcuni con il petto semiaperto,
altri con una mano sola,
alcuni con la carta d’identità in tasca,
altri con questa nell’anima,
alcuni con la luna attorcigliata nel sangue,
e altri senza sangue, né luna, né ricordi.
Ognuno se ne va, sebbene non possa,
alcuni con l’amore tra i denti,
altri mutando la propria pelle,
alcuni con la vita e la morte,
altri con la morte e la vita,
alcuni con la mano su quelle spalle,
altri sulle spalle di chissà che cosa.
Ognuno se ne va perché deve,
alcuni con chiunque albeggiando tra le ciglia,
altri senza aver mai visto nessuno,
alcuni dalla porta che dà o sembra dare sul cammino,
altri da una porta disegnata sulla parete o forse in aria,
alcuni senza aver mai iniziato a vivere,
altri senza aver mai iniziato a vivere.
Ma tutti se ne vanno con i piedi legati,
alcuni verso il cammino che hanno fatto,
altri verso quello che non hanno fatto,
tutti verso il cammino che non faranno mai.
*
C’è da far scorrere un sipario,
anche se non sappiamo dove.
C’è da far scorrere un sipario,
ma forse il palcoscenico è vuoto.
O forse non lo è
ma allora
chi sono gli attori
e che dramma stanno rappresentando?
Magari aprendo il sipario
capiremmo subito
che è per noi quel palcoscenico
anche se non esiste dramma da rappresentare?
O bisognerà chiudere il sipario
perché il palcoscenico è da questa parte
e già non possiamo più ritardare
l’inizio della rappresentazione?
Ma, in quel caso,
chi sono gli spettatori?
O forse non vi sono spettatori
e non ci resta altro da fare
che la pura rappresentazione?
*
Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
e che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Troverò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e che usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non sarà necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà nemmeno alla tua morte.
*
Un amore al di là dell’amore,
al di sopra del rito del vincolo,
al di là del sinistro gioco
della solitudine e della compagnia.
Un amore che non ha bisogno di ritorno,
ma neppure di partenza.
Un amore non esposto
agli sbalzi dell’andare e venire,
dell’essere svegli o addormentati,
del chiamare o tacere.
Un amore per stare insieme
o per non starci
ma anche per tutte le posizioni
intermedie.
Un amore come aprire gli occhi.
e forse anche come chiuderli.
*
Il centro dell’amore
non sempre coincide
con il centro della vita.
Entrambi i centri si cercano dunque
come due animali tormentati.
Ma quasi mai si incontrano,
perché la chiave della coincidenza è un’altra:
nascere insieme.
Nascere insieme,
come dovrebbero nascere e morire
tutti gli amanti.
*
Tacere alcune poesie,
non tradurle dal silenzio,
non vestire le loro figure,
non arrivare neppure a formarle:
lasciare che si concentrino come uccelli immobili
sul ramo sotterrato.
Solo così altre poesie germoglieranno.
Solo così il sangue si fa strada.
Solo così la visione che ci illumina
si moltiplicherà come il pane.
Le poesie taciute
ci dimostrano che il miracolo è sempre giovane.
E alla fine, quando tutto sarà muto,
chissà che quelle poesie
non ne facciano nascere un’altra.
*
Cercare una cosa
è incontrarne sempre un’altra.
Così, per trovare qualcosa,
bisogna cercare ciò che non è.
Cercare l’uccello per incontrare la rosa,
cercare l’amore per trovare l’esilio,
cercare il nulla per scoprire un uomo,
tornare indietro per andare avanti.
La chiave del cammino,
più che nelle sue biforcazioni,
– il suo inizio sospettoso
o la sua fine incerta –
risiede nel caustico umore
del suo doppio senso.
Si arriva sempre,
ma da un’altra parte.
Tutto viene e torna.
Ma al rovescio.
*
Vivere è stare infrangendo.
Una o l’altra legge.
Non ci sono alternative:
non infrangere niente è essere morto.
La realtà è infrazione.
La irrealtà anche.
E tra le due scorre un fiume di specchi
che non figurano in nessuna mappa.
In quel fiume le leggi si dissolvono,
ogni trasgressore diventa un altro specchio.
Roberto Juarroz nasce nella Provincia de Buenos Aires, il 5 ottobre del 1925 e muore il 31 di Marzo del 1995. Laureato in Lettere e Filosofia all’ Università di Buenos Aires, ricevette dalla stessa istituzione una borsa di studio che gli offrì l’opportunità di perfezionare i suoi studi alla Sorbona. Da questa prestigiosa università ottenne successivamente l’incarico di professore titolare. Dal 1958 al 1965 fu direttore della rivista Poesía;. Fu critico del giornale La Gaceta (Tucumán, 1958-63), critico cinematografico della rivista Esto e traduttore di vari libri. Ricevette, tra tante distinzioni, il Gran Premio d’Onore della Fondazione Argentina per la Poesia (1984) e il Premio Esteban Echeverría.
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capitata per caso qui…
domandavo: esistono pubblicazioni in italiano di questo poeta?
non sono riuscita a trovarle, on line.
Ma forse ho cercato male…non so…
Buon giorno.
Con calma curioserò nel blog
Credo non ci siano al momento libri su Juarroz in versione italiana….purtroppo.
Grazie, un saluto
Antonio Bux
speriamo ci si dia da fare…
un saluto a te
Lucia