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Li vedo vagare rispecchiandosi tra le betulle
nelle mani soffiano una fiamma – la prima fiaba.
Scossi dall’abisso rosso, dalla terra secca, nascono.
Li vedo arrivare, così bagno la soglia di fango e sangue
cospargo ottimi profumi sulla porta per i piccoli spettri.
Cerco di evitare un dialogo, porgo un dono
a loro che sono una nuova alba, i cervi dei miei sogni.
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Qui le donne portano volpi sulle spalle,
cacciano e ci fanno mangiare.
Vivono con le mani nella bocca del lupo;
con i piedi nella fogna della neve
calpestando gli zingari, urlano al cielo.
Qui le chiamano dee della salvezza –
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Oggi Orione parla agli analfabeti –
il cielo è un pane antico dalla crosta bianca.
Una donna in lontananza sventola tre spighe di grano.
Truccata di campagna abbaia alla periferia
e miete, miete per il primo giorno del mondo.
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Le vene del suicidio? Sono corse contromano
lampioni fulminati, distrutti da illusioni.
La vita è un’onda di rovi di more
che non riesco più a raccogliere.
Pensare al suicidio, al suicidio di dio.
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È tanto nero quanto antro l’inizio della morte – io lo so.
È un film che si interrompe. È il rumore bianco del televisore.
La paura di alzarmi dal letto – volerlo o no –
la paura di farsi sonnambulo: impugnare un coltello:
poggiarne la punta sullo stomaco: sentire il cervello
parlare alla lingua – dire:
non spingere.