MARCO MUNARO – un invito alla lettura di “Ruggine e oro” (Il ponte del sale 2020) – a cura di Giuseppe Todisco

«Il terzo argomento ora menzionato, è quello che sostiene che la freccia in movimento sta ferma. Questa tesi deriva dalla supposizione che il tempo sia costituito di istanti: se non si ammette questo, il ragionamento non regge. – Zenone commette un paralogismo; se, infatti – egli argomenta – ogni cosa o è in quiete o è in movimento, e nulla si muove quando sia in uno spazio uguale a sé, e poiché ciò che si muove occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé, allora la freccia che si muove è immobile»
 
– I frammenti dei presocratici
 
 
Quella di Munaro, divisa tra il Po e l’Adige, è un’esperienza poetica fatta di osservazione e memoria. Il tempo, dunque, la fa da padrone in questa raccolta lunga sei anni, ma che si esaurisce nello spazio minimo del ricordo. Il moto rovesciato, la regressione, porta con sé espressione e giudizio. L’attribuzione di un “oggetto” ad una categoria – in questo caso del vivere al vissuto – è comunque operazione faticosa, e la fatica di Munaro sta tutta nel dover elencare, uno ad uno, gli elementi del paesaggio affinché questo risulti ancora “attuale”.
 
Ma le cose, così come i ricordi, se messi costantemente sotto lente di ingrandimento, tendono a cristallizzarsi per via di quell’effetto che, in meccanica quantistica, prende il nome di “Zenone quantico”. In un esperimento condotto dai dottorandi Srivatsan K. Chakram e Yosegh Patil, – e consistente nel raffreddare a una temperatura di circa 0,000000001 gradi sopra lo zero assoluto un miliardo di atomi di Rubidio, mantenendo in sospensione la massa di atomi tra i raggi laser del microscopio – ciò che accadeva, a temperature così basse, era che le particelle cominciavano a muoversi da un posto all’altro attraverso un fenomeno chiamato “tunnel quantistico”. Tuttavia i ricercatori hanno osservato qualcosa di straordinario: le particelle subatomiche instabili non si muovevano, o per meglio dire, non decadevano, fin tanto che erano sotto osservazione, e più aumentavano la potenza del laser, per rilevarne il comportamento, più queste restavano immobili. Dunque, secondo tale assioma, un sistema – che decadrebbe spontaneamente – è inibito o addirittura bloccato se sottoposto ad una serie infinita di osservazioni.
 
GALILEI
 
Cosa vedi laggiù dalla finestra?
Un muro, una ragazza che passa
o una formula che spiega il tempo?
È maggio siamo avvolti dalla
maestà degli alberi verdi e quasi in fiore
io guardo i fili d’erba matta
le spighe d’oro
i cardi che fra poco scriveranno
i loro calligrammi nell’aria
e penso al tuo pensare
alle parole di una canzone amata
correndo
la mattina quando suonano le campane
nella via deserta
e ti svegli
 
«Solo chi cammina si accorda /alla terra che gira», scrive Munaro. Immettersi nel meccanismo, però, non equivale a scomparire. Implica, al massimo, un’esigenza di movimento necessaria all’autore rimasto intrappolato in quel limbo spazio/temporale che è il ricordo. Perché tutto, in questo libro, viene da lontano ed ogni parola scritta è già stata vita per qualcuno.
 
Al passo 134 ho contemplato
 
le lame, gli orti, la ciminiera
e la sublime vanità dei ponti,
e la serpe moribonda zigzagante
tra le bassure
e le secche.
 
Contemplare, attrarre nel proprio orizzonte. Resta evidente il tentativo di disabituare lo sguardo al paesaggio, affinché questo risulti sempre nuovo e generi sorpresa. Infatti, proprio come al microscopio, vista da vicino, la realtà, appare immobile. L’occhio del poeta, non così dissimile da quello dello scienziato quando prova a trarre leggi dall’esperienza, cerca un “accordo” con la natura. Ma questa sintonia è possibile solo se mantiene celato il proprio mistero, poiché il solo tentativo di far coincidere l’ipotesi al dato empirico – ovvero il verso alla parola svelata – farebbe esaurire la missione del poeta.
 
 
Giuseppe Todisco
 
 
GOLENA
 
A Cristina, febbraio
 
Nella fontana di luce
che riempie la stanza
mi fermo ad ascoltare
la musica dello stagno e dei platani
delle canne e delle tane di volpe
raccolta insieme in un’ansa
del fiume in secca.
 
Tra le canne scendono sentieri ai maceri
che gli ontani intorno hanno scoperto
e poi hanno coperto
entrando numerosi nell’acqua.
 
Tutto ruota, camminando, e alza gli occhi,
mi dici, vibrano come uno sprazzo
giovani uccelle nel cielo azzurro.
 
Davanti, un campo arato
e qualche filare, e gemme tese di salice.
Le case in golena hanno finestre che arrivano al tetto,
da una di quelle finestre
mi sporgo e ti chiamo.
 
L’aria è così tersa che prende fuoco,
nel buio veneziano.
 
 
CANONICA
 
A mia zia Leda
 
Le ore infinite nello spiazzo dell’asilo
dietro un pallone
o è notte
o pioggia o nebbia
e il silenzio da cui sottovoce chiamano i morti
nel cimitero vecchio
dietro la canonica: loro
SANNO DI TE
 
o è vicolo Fabio Filzi lastricato di sassi di fiume e d’erba,
i lampioni gettano una luce che s’allunga
sulle scale
hai visto il tempo favoloso dei giorni
e quello straniero della storia
 
io l’ho imparato dalle tue gambe
sghembe
dal volto che si inteneriva
dagli occhi buoni
dalla follia
che trascorreva nei colpi secchi
del tuo parlare antico
 
il marmo crepato delle due chiese
le candele consumate
la voce delle campane
SANNO DI TE
 
Qualcosa che si sente e si capisce
dopo, quando non c’è più
 
 
MEDÈO-CAPANEO
 
Portavi con te la crudeltà dei mattini
d’inverno e dei digiuni
le frasche dove il tuo amore era caduto
 
La tua voce barbarica
fulminata si faceva dolce di pietà
e di dispetto
nel mare dove naviga Dioniso
 
Credevi
nella fede della carne distrutta
nel nido che in te filavano le parole
sapienti, lo so
 
le tue Marie urlavano ma
avevano un canto
che ho udito solo nelle partorienti
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