LEOPOLDO MARÍA PANERO – Cinque poesie da “Contro la Spagna e altri poemi non d’amore” (cura e traduzione di Antonio Bux, con una testimonianza di Ianus Pravo, Nessuno Editore 2020)

[…] Così è la vita stessa di Panero a trasformarsi nella sua opera, quella di un uomo che si pone l’eterno interrogativo di chi sia la vittima o il carnefice, il vincitore o il vinto, però sostenuto sempre dalla fede nel puro nulla in cui sacrificalmente scivolare, con la consapevolezza del proprio destino. Eppure nelle sue poesie si potrà anche cogliere il barlume di una rivendicazione al divino, evocato dall’oscurità metaclassica che in Panero è risonanza allucinata del passato, quasi una radiazione che trascende i luoghi del vivere (famiglia, carcere, manicomio) e che è a suo modo una forma di preghiera, di sottomissione del reale al mito, tuttavia vilipesa dal sostrato inferiore dove l’autore dapprima si riflette, poi affonda presagendo la barbarie, l’eterna umana sconfitta; come accade nella pittura di Francis Bacon, dove lo scavo per sottrazione porta impietosamente al punto di partenza, tra quelle radici da cui uscimmo urlanti.[…]
 
 
(dall’introduzione a cura di Antonio Bux)
 
 
Cinque poesie dal libro
 
 
 
***
 
Ah, la paura atroce di guardarsi le mani,
sentir volare tra i miei capelli un uccello
e toccarlo, toccarlo, incendiando le mani!
Sentire che ho dimenticato la mia casa per baciare l’erba
e il calore del bosco tra le mie cosce
e il freddo buono solo per gli occhi,
sulla pagina il rincorrersi dei cervi
che cadono ai tuoi piedi come parole, una dopo l’altra,
finché solo la saliva bagnerà le labbra
e nient’altro!
Nient’altro se non invitarti alla pagina,
al nulla crudele della rosa emaciata
castigata dal silenzio, con gli uccelli
che fischiano dal bianco imene, dall’imene
tra le rovine, dall’imene dentro le rovine del bosco!
Tu, l’ultimo atroce testimone del cervo
che nitrisce atrocemente tra le mie cosce
chiedendo la paga del soldato, elemosinando
un poco di seme per saziare gli occhi,
un poco di seme prima della disfatta
e poi tornare al prato dove dormono gli elefanti!
Cosa sia il corpo, nessuno lo sa, ma gli occhi
che cercano il tuo corpo nel nulla del bosco
ancora piangono per l’ululato, per l’ululato
nel nulla del bosco,
il grido per il figlio morto,
la madre che piange nella notte!
Io sono solo un porco, invoco la protezione del silenzio
e il bianco strascico cinge il feretro della dama
appesa per un soffio a un filo di silenzio,
assieme a cent’occhi cavi che cingono il nulla!
Voglia Dio che non mi si veda morire qui
e che di me restino solo leggende sulla principessa
decaduta sorretta dalle mie cosce, assetata di cadere,
l’atroce cadere di una perla tra altre cosce
per testimoniare quanto vivo sia ancora il porco,
e con l’impossibile saziare la sete della dama,
la sete della principessa decaduta!
Sia questo il luogo di sepoltura in onore
della principessa decaduta che riposa tra le mie cosce,
uccisa domani all’alba o dopo aver letto
questi versi accompagnati dal nulla,
quando la luce rivive alla mensa degli uomini,
quando la luce assassina chiama gli uomini
a festeggiare la principessa decaduta,
la disfatta a piè di pagina, ai margini del verso,
perché gli uomini possano scambiarsi
leggende sulla principessa decaduta
e col vino festeggiare la sua fine e la sua disfatta,
nel vino spargere le ceneri e berne sempre di più,
perché brindando all’impossibile nessuno
possa tornare a vivere per un istante,
questo ricerca il verso, il tremore del suo cadere.
 
 
 
QUELLO CHE STÉPHANE MALLARMɹ VOLLE DIRE NELLE SUE POESIE
 
Volle dire il vecchio, quando anche l’ultima
lampada si era spenta nella stanza
e il sole non ci vedeva, gettato il serpente
con la feccia del giorno nel pozzo del ricordo,
nel sogno che tutto cancella, in sogno,
volle il vecchio dire che le leggi
dell’amore non sono quelle del nulla,
che solo abbracciati a uno scheletro nel vacuo mondo
sapremo che l’amore è fatto come sempre di nulla,
e che il nulla,
un’entità che fatalmente rompe
con l’amore e la vita, chiede un’ascesa,
per questo una croce negli occhi
e uno scorpione sul fallo raffigurano il poeta
tra le braccia del nulla, del nulla rigonfio,
quando dice che neanche Dio è superiore al poema.
 
 
 
¹ Stéphane Mallarmé, nato a Parigi nel 1842, fu autore di un corpus alquanto ristretto di opere in versi attraverso le quali ha rivoluzionato il linguaggio poetico moderno. Partendo da una condizione umana senza più trascendenza (poiché Dio non esiste), il poeta confessò di aver incontrato l’abisso del Nulla, il cui pensiero gli fece abbandonare gradualmente la scrittura. L’8 settembre 1898 raccomanderà alla moglie e alla figlia di distruggere tutti i suoi scritti, in quanto “ non esiste eredità letteraria”; morirà l’ indomani e le due donne non vollero esaudire la sua ultima richiesta.
 
 
 
***
 
Così il cieco amante usignolo della Luna
canta ai vecchi il dolore d’altre dune,
dove l’amore si trascina lontano dalla culla deserta,
dove il serpente abbracciò la Luna.
 
Lontano da me è il desiderio di dominio,
lontana la morte che sempre parlava
quando l’usignolo rimaneva in silenzio.
 
Lontano ho visto la morte, l’amore nefando
da cui nacqui fuori dal mare come Venere.
 
Inganna la morte nello sfondo deserto
tra le pagine il cadavere di un vecchio.
 
 
 
***
 
Il mio grande amore si chiamava Maíz Blanco,¹
fu torturata e violentata sulle colline
vicino al lago dove s’abbeverano gli elefanti.
Di me avanzeranno appena le ossa,
sul mio cranio un giorno passerà un pigmeo
zufolando, vicino al lago,
vicino al lago dove s’abbeverano gli elefanti.
Morii per una causa che l’elefante non sa
e che è mistero e oblio agli occhi dell’uccello,
quello che per te è il serpente
non lo sa la selva,
muta resta la sostanza del ruscello
e non sa dimenticarmi.
 
 
 
1 Una leggenda guatemalteca narra dell’ultima giovane figlia del signore della regione, che tra- scorreva il suo tempo nuotando in una laguna nascosta tra le caverne. Un pomeriggio una voce le disse che uscita dall’acqua avrebbe trovato delle impronte e che doveva seguirle. La ragazza uscì dall’acqua e vide le tracce: “Seguile”, disse di nuovo la voce. Lo fece e quando raggiunse la caverna vide un giovane seduto su una roccia, ricoperto da uno strato di piume.“Avvicinati, non ti farò del male,” lui disse, “sono il principe dei pipistrelli, ti ho visto nella laguna e vorrei prenderti in moglie. Ma se accetti devi sapere che sarò spesso assente ”. La ragazza accettò la sua proposta, si sposarono e dopo pochi giorni migliaia di topi invasero i campi divorando tutto il mais giallo. Il popolo gridò che gli dèi avevano punito quell’unione. Allora il signore suo padre mandò a chiamare la figlia e le ordinò di cercare nuovi semi di mais, sotto pena di morte se non avesse obbedito. La giovane cercò i semi dappertutto, senza l’aiuto del marito assente, poi stanca si rifugiò in una grotta addormentandosi. Al risveglio il principe dei pipistrelli era lì, dicendole sottovoce: “Fidati di me, moglie, dì al tuo popolo di preparare la terra per il seminato; la luna piena ti strapperà i denti e poi li seminerai. Ti prometto che non sentirai dolore e che creerai un bel grano”. Da allora a Cinach-Mecallo cresce il mais bianco come i denti della ragazza e la gente non ha mai più patito la fame.
 
 
 
NAUFRAGIO
 
Le carpe s’aggrapparono alla barca con le loro mani
e da sotto le donne lo chiamarono
col suo nome: Oh, Captain,
Oh, capitano, oh mio capitano!¹
scendi nel fondo
dove i Grandi Navigatori ballano con le loro femmine
e le truccano e le dipingono di parole
e l’uomo non è un numero
e la bocca
dei Grandi Navigatori esala fuoco e perle,
Oh, Captain, My Captain!
Sulla spiaggia l’acqua dice che gli uomini verranno.
 
 
 
¹ O Capitano! Mio Capitano!’’ (O Captain! My Captain!), è una poesia scritta dal poeta statunitense Walt Whitman dopo la morte del presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, avvenuta il 15 aprile 1865. Essa è una dei riferimenti principali sui cui si basa il film di Peter Weir L’attimo fuggente’’, del 1989.
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