Scomparire testimoniando la vita è la prima peculiarità di ogni poesia che si rispetti. Perché il vero poeta sa sublimare fino a giungere al sogno di sé. E questo accade anche nella seconda opera di Sergio Bertolino, intitolata La sete, che documenta un percorso già significativo. Il giovane poeta reggino ci fa intendere quanto la sete, e di conoscenza e di morte, sia la distanza tra lo sparire e il tentare di esistere attraverso la sillabazione di un esperire vulcanico. E se le singole poesie di questo notevole canzoniere offrono al lettore un ampio ventaglio di contenuti e paesaggi interiori, le sezioni che scandiscono l’intero lavoro rendono il corpus un preciso spartito dove la sostanza lirica si avvolge indissolubilmente al tracciato biografico del poeta, che ha il dono di attingere alla tradizione per farsi “beffe” del contemporaneo. Ed ecco che la sete diventa dunque strumento di indagine filosofica, come anche di espiazione, e non solo metafora passionale o mera necessità. La sete è mancanza, voluttà, fondamento di un cammino mai pago di luce, spinto al punto di bruciare tutto pur di bere l’indicibile.
Antonio Bux
***
Credi a me, qualunque strada s’imbocchi
basta un abbaglio: quel rito – sempre lo stesso –
che tolga la cera fredda da sotto gli occhi.
Un po’ come resistere, prepararsi
un letto piano tra le ortiche
perché frani l’inverno e trasfiguri,
e soffino i vetri dai colli accesi
per la tristezza musicale dei barconi.
Resto l’uomo che guarda fisso il vuoto
dai ponteggi, che pensa
nulla di questa febbre andrà risolto.
Resto chi non sputa fuoco a margine
di un foglio, scrive di giorno
e perciò non sa realtà al di fuori
del deserto. Ma stamane rido mortalmente
con le scimmie. Mi ripeto, mi abbaglio.
E tu non conosci il mio nome;
dormi ancora tredicenne – celata
ai guasti della luce – sulle panche
dove siedo a sistemarmi i capelli
e a domandarmi se sarà fieno il tempo, se
soffro per sollevarmi o farmi neve.
***
Niente è più concreto dell’idea, l’amore
si fa al buio conficcàti nella terra. Tu chiedilo
al bulbo, alla dolina; chiedi perché una forza
ci ha diffranti, mutàti in arcipelago e radice.
E finalmente avrai del pane da spezzare
(il segreto è far l’amore con sé stessi).
Per cui lascia che la balia sciolga i suoi voti
nel caffè, che sotto l’arco dimagrito dei tigli
l’uomo in nero lucidi il coltello a specchio;
e tolta alla polvere dei lampioni
la tua triplice bocca saprà di che morire.
Senza parvenze, senza il volo mimato del merlo,
di là da ogni incertezza o implorazione, vieni
e disperdimi.
***
«Nella mia vita è inscritta
la tua morte.»
(Così parlò l’angelo
di ritorno dalle giostre.)
Perché le mele dei tuoi occhi
son bucate, e quella voce
– che amoreggiò con le aquile ubriache –
non sa più cosa sia
l’incanto deflagrante dell’assenso,
la gioia di perdersi, di credersi,
la gioia di…
«Quella voce è ciò ch’è stata, non sarà.»
Inutilmente interpretiamo il tempo –
ché il tempo non s’interpreta infinito.