JUAN RODOLFO WILCOCK
(da La parola morte, 1968)
Chi non ha nome non può morire,
la bestia ignora il proprio nome e vive,
chi non ha la parola non perisce.
Chi non ha lingua non si iscrive nel libro
che a alcuni metri dalla terra gli uomini
scrivono, il libro delle defunzioni.
La rete del linguaggio li sostiene
e appesi in aria come trapezisti
fanno nell’aria dei salti di morte,
mentre la vita è sotto nel silenzio
dei vegetali immortali e gli insetti
che senza tempo vivono per sempre.
La terra morte non vuole né conosce,
perciò la morte comincia a certa altezza,
sul mare a cinque, sui boschi a trenta metri.
***
Il Verbo fu alla fine. Fu. la fine. Perché è il nome a consegnare un volto, e necessariamente ogni volto si guasta e perisce. Perché non si esiste senza volto, senza nome. O può darsi che si viva, al di là del tempo, l’esistenza aurea – della «greggia» o del mito. Wilcock ci esprime la caduta umana nel tempo per effetto della parola, la parola che identifica. Ma l’identità resta pur sempre ciò che non sopravvive. Il tempo – come noi lo concepiamo – si fa reale solo in seno all’Io. Non c’è che da tentare il suo oltrepassamento per dar battaglia alla morte, per non iscriversi nel «libro delle defunzioni». In questo risiede il paradosso della poesia. Se la parola comune identifica, quella poetica allude, non circoscrive, non definisce. Il vero poeta (si ricordi il je est un autre di Rimbaud) ha quasi l’obbligo di valicare l’Io. Forse esiste in misura maggiore proprio in quanto vuol essere più Io degli altri – e così facendo diventa anche gli altri. Penso a Keats, che riteneva il poeta «la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha identità, è continuamente intento a riempire qualche altro corpo – il sole, la luna, il mare e gli uomini e le donne, che sono creature d’impulso, sono poetiche e c’è in loro qualcosa d’immutabile – ma il poeta no; non ha identità».
Sergio Bertolino