DELMORE SCHWARTZ – Il vero americano
(da Summer Knowledge, 1959), traduzione di Sergio Bertolino
Jeremiah Dickson era un vero americano,
Era un ragazzino che aveva capito l’America. Sentiva di dover
Pensare a tutto perché, al di là di quel tutto, non c’era niente da pensare
— Conoscendo all’istante il cuore della verità e della commedia,
Sapendo d’istinto come il senso dell’umorismo fosse una necessità
Per chiunque vivesse in America. Perciò, nativamente e
Naturalmente, quando una domenica d’aprile in una gelateria
Gli fu chiesto di scegliere tra un gelato al cioccolato e una banana split,
Jeremiah rispose senza esitare. Non aveva bisogno di pensarci
Perché era un vero americano: determinato a non cambiare,
A rifiutare l’aut-aut di Kierkegaard e degli altri europei,
A rifiutare di accettare le alternative, di credere alla scelta,
A rifiutare la selezione, a negare il dilemma, a scegliere sempre
[l’assoluta affermazione: conoscendo in cuor suo
L’infinito e l’oro
Della frontiera senza fine, l’Ovest immortale.
«Entrambi: li prenderò entrambi!» dichiarò il vero americano
A Cambridge, Massachusetts, in una domenica d’aprile, istruito
Dai grandi magazzini e dagli empori,
Educato dal Natale, dal circo, dalla volgarità e dalla grandezza delle
Cascate del Niagara, del Grand Canyon,
Guidato dal grande, volgare, infinito appetito che si gratifica
E s’illumina al buio, dallo splendore della luce
Nei sabati in cui la luna fa un doppio spettacolo,
Compimento delle réclame della luce immaginata,
Che è così com’era — infinita fede nell’infinita speranza — di Colombo,
Barnum, Edison e Jeremiah Dickson.
***
Definirsi in negativo (come fa il Montale degli Ossi, «solo ciò che non siamo»), dire di sé – e dirlo tacendo – sono l’uomo che attraversa due vie, il paranoico steso a rimuginare, ubriaco, su una panca della Syracuse University… dilemma e frutto d’un fallimento coniugale (del padre volitivo e della madre reazionaria, ma anche delle radici giudaico-romene e dei natali americani). Jeremiah Dickson rappresenta quel che Delmore Schwartz – l’ebreo migrante del verso – non ha mai potuto essere: l’uomo volgarmente nietzschiano del grande sì, della piena affermazione. L’uomo senza metafisica, il “vero americano”. Nessuna celebrazione, l’ironia è evidente. Il poeta disprezza. Eccome se disprezza, ma la sostanza non cambia. Si assiste a un progressivo emotivizzarsi della parola, a un accendersi graduale dell’immaginificità e del lirismo. È l’emersione necessaria del demone di Delmore, diabolico nel senso etimologico del termine (diavolo è colui che divide). C’è chi vi ha ravvisato i segni della rivolta baudelairiana e rimbaudiana. Io, invece, vi leggo molto del suo caro Eliot («l’eroe internazionale», come amava chiamarlo) e soprattutto di Shakespeare («Noi siamo shakespeariani, siamo stranieri», recita uno dei suoi testi più belli). Tiene ancora banco il leitmotiv dell’ebreo immigrato nel Nuovo Mondo. Ma stavolta la prospettiva è capovolta. Jeremiah guarda Delmore. Dolore che si maschera ridendo.
Sergio Bertolino