purtroppo, come tutti sappiamo, il paese intero è fermo in attesa della “liberazione”, che chiunque di noi si augura avvenga presto. Anche l’editoria si è fermata, così come i libri che erano di imminente uscita, procrastinati inesorabilmente a date da destinarsi.
Tra questi, vi è l’ultima raccolta poetica (la terza, che succede a “Estinzione dell’uomo bambino”, Perrone 2015; e a “La città che ti abita”, Empiria 2017) di Giorgio Ghiotti, “Alfabeto primitivo” (in uscita ancora per Giulio Perrone Editore). Ho letto in anteprima il lavoro, così ho pensato di anticiparne l’uscita con un estratto qui sul mio blog.
Eccovi allora di seguito un assaggio da questo che io ritengo sia un canzoniere d’amore e un “poema naturale”, dove la riconciliazione col dolore coincide con la testimonianza, ruotando attorno a quella geografia degli affetti e delle perdite, sempre in aderenza con il quotidiano, ma anche tenendo bene a mente tutti i fantasmi che si annidano attorno alla vita e al tempo della memoria.
Auguro a Giorgio il meglio per questo suo nuovo libro.
(seguono dieci poesie dal libro)
Io ti dimentico e ti scancello
stella di carbonio, corpo esploso
ti do la morte ti scavo la fossa
ti pitto di nero per non più
vedere questa larga innocenza
che mi è stata tolta, io non più
voglio provare la mondana meraviglia
della specie se il vitellino non vedrà
dicembre, la tenerezza del mio sonno
la disperata tua veglia, io mai più
ti chiamerò per nome dalla soglia
della nostra infanzia, amica del rifugio
Quello sguardo dove stagnano mari
gli occhi dei cavalli giurerei
che siano gli occhi delle madri.
Camminare al buio nella casa che ora
ha il pericolo delle tre del mattino
come una casa qualunque. Anche
il più stupido oggetto, la cianfrusaglia
più inutile racconta una storia,
memoir della vita che abbiamo avuto.
Dovrò riabituarmi, fare le prove
col coraggio, dopo tanti anni riuscire
nuovamente a dire “casa mia”.
Eppure la mia casa aveva la luce della cucina
sempre accesa di notte, una ciotola
per l’acqua e un tappeto verde più scuro
nel centro, un cerchio perfetto di urina,
aveva chi da dietro la porta vegliava
partenze e ritorni da sera a mattina
da mattina a sera, ecco la mia casa com’era
a vederla dabbasso una finestra d’oro
un baule pirata con dentro tanto tesoro.
Per quanto sempre mi sei stato caro
parlami con l’onestà dell’ultima volta.
Non dirmi se gli dei che abbiamo creduto fratelli
li abbiamo inventati sotto le stelle chiamando
Sasso il sasso e l’albero Olmo, adorando
un nuovo firmamento, non dire se a riva
è rimasto lo scarto del mare tra i legni
e i contorni di un nome sul quale, prima
di te, qualcuno ha giurato per sempre
come fosse per sempre che tornano i giorni.
Per quanto trattiene calore la sabbia
conserva a quel modo quanto credevi perduto,
cova il mio amore che non ha avuto forza
uovo duro mai schiuso, sasso e se albero Olmo.
Ritorno ai luoghi, e non so più chiamare
le piazze come allora. Ci riconosceremo
da una svolta, un segno della mano
che ruota dentro l’aria e che saluta,
dall’albero che muta il suo colore
coprendo le panchine come giorni,
dal forte odore di chi ritorna a sera
esatto odore che hanno le famiglie
e i loro appartenenti sui maglioni
tribù di lane, di cotoni, di azzurre
lenzuola e federe sottili…
Avremo una dignità larga nel viso,
aderiremo pienamente a questo secolo,
non ci infastidirà questa natura di esseri
destinati a una fine, decisa da principio
la sorte di ogni creatura, perché grande
avremo la strada finalmente chiara,
sicura, ci chiamerà col nome che fu nostro
fin dalla preistoria, un nome collaudato
di animale, risponderemo alzando il muso
dall’acqua mineraria della fonte.
Da qui non sembra possibile che sia
ancora di luglio la luce che ti insegue
e che ti insegna il lascito del sole:
non ferito da lingua umana o mano,
mai del tutto in salvo, mai lontano
da ogni falsa nuvola fabulare
separato dall’ombra che ti scruta
come bestia scolpita nel segreto
navigante in modulari temporali.
Bambino cavalleresco, eroe rodiato,
nome che sei, nome che sei stato,
tenero dubbio al quale mi consolo
d’essere solo uno che ti ha amato
Angelo unico dell’evento, risiedi in me
come una casa viva, in tutto identica
alla vita con le sue luci grandi
e il suo passare, l’ampio rumore di stanza
in una stanza, il vento naturale moto
alle cose ancorate alla terra, sospinte
verso il basso. Angelo unico dell’evento
la riconosci l’aria che tira da mondo
a mondo, passando per la camera
da letto, per l’anticamera del cuore
Io ti osservo da lontananze compiute
e non è bene per la mia solitudine.
Da che esiste il mondo s’inchinano
i pianeti al loro sole, il cielo ancora
lo riempie il buio di stelle, entità
astratte nella loro appartenenza
elementare a un misterioso farsi
di nulla, ma talmente belle se
tengono un pensiero, una paura.
Meraviglioso essere eterno, pura
sostanza universale, amore che
ti so ma non mi vedi, ci vorrebbe
del tempo per spiegare il male
che si accetta come un dono e
rinverdisce anche l’albero
maestoso, miracolo vegetale
– è in te che trovo il mio riposo.
Mi sono chiesto come ti avrei
pensata da morta e la risposta
è stata: sicuramente viva.
Se ti penso ora è tra le piante
grasse della cappa disposte
in fila indiana in vasi neri,
tu pure vegetale e umana insieme.
Dev’esserci un punto che non muta
se nella trama che insegui
tra i fornelli o nel moschino
che schiva il tuo fendente.
Può darsi che sia vera soltanto
la distanza dalla quale ti osservo
di te, altra te scolpita nella luce
mentre il giorno si dà il cambio
con la lampada, staffetta
elettrica momento quasi sacro.
Io aspetto – di te – una consolazione, un cenno,
il segno di un sigillo – un mare senza veleni
di schiuma o legni gonfi di croce.
Tu mi stai dietro con la tua rabbia vera
e io ti prego più avanti.
Giorgio Ghiotti è nato nel 1994 a Roma e vive tra Roma e Milano, dove studia Italianistica contemporanea e collabora con la casa editrice Bompiani. Ha esordito nella narrativa con la raccolta di racconti “Dio giocava a pallone” (nottetempo 2013) e nella poesia con “Estinzione dell’uomo bambino” (Perrone 2015, prefazione di Vivian Lamarque), dal quale è stata tradotta in arabo una selezione di poesie in occasione del Salone internazionale del libro di Abu-Dhabi. Ha inoltre pubblicato un libro di interviste a grandi poetesse e scrittrici italiane, “Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura” (Perrone 2016), il romanzo “Rondini per formiche” (nottetempo 2016) e il saggio narrativo “Via degli Angeli” (Bompiani 2016) con Angela Bubba. Il suo ultimo libro di poesie è “La città che ti abita” (Empirìa 2017, prefazione di Biancamaria Frabotta). Ha scritto di libri sulle pagine culturali dell’Unità e collabora con riviste e blog letterari quali Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Minima&moralia.
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Serviva una lettura come questa.
Grazie
Grazie a lei per la visita e per il commento. Un caro saluto!