ANTEPRIMA EDITORIALE – Gabriele Galloni – “L’estate del mondo” (Collana Sottotraccia N. 11, diretta da Antonio Bux, Marco Saya Edizioni, 2019)

Gabriele Galloni (Roma, 1995) è uno tra gli autori emergenti più saldi della nuova generazione. Dopo la sua convincente “trilogia” d’esordio (composta dai libri Slittamenti, In che luce cadranno e Creatura Breve), dove con un tono crepuscolare il verso scarno alternava momenti di lucido delirio ad altrettanti di ordine e rigore creativo, offre ora al lettore questo suo nuovo lavoro, L’estate del mondo, che appare subito come l’opera più matura dell’autore romano, proprio per la felice fusione tra elegia e canto piano. E così il poemetto diventa racconto di un amore indefinibile e infinito, e la caducità del tempo e della vita sono il simbolo, assieme all’estate – qui intesa come l’assoluta vanitas del tutto – di un mondo a volte soltanto sognato, appena tangibile eppure inesauribile. E non c’è più solamente quell’apparente distacco e freddezza, o l’ostinata ironia, nella nuova poesia di Galloni; ma anche fatalità, destino, fratellanza. Perché la poesia tende la mano, muove le nuvole, così come l’amore lontano e imperscrutabile di una storia che pare già scritta da secoli, eppure ancora in corso d’opera. Per questo credo che l’opera in Galloni sia la freccia di una speranza: la speranza di sapere che l’estate non è solo un luogo temporale o una stagione, ma anche l’anima e il destino di ogni essere che sogna a mare aperto.
 
 
Antonio Bux
 
 
 
3 poesie dal libro
 
 
 
 
VII
 
 
Per l’ennesima volta, stanotte,
ho sognato una luna di polvere
 
sopra le case di via Ventimiglia.
E so che perderò qualche altra cosa;
 
che seguiranno altri giorni d’acquario;
e in casa intermittenti luci rosa
 
di stanza in stanza; e la televisione
costantemente accesa
 
su canali di lingua giapponese
 
dove strani pupazzi di gomma
si baciano, si danno guerra in ombra –
 
sopra le case di via Ventimiglia
per l’ennesima volta, stanotte,
 
ho sognato una luna di polvere.
E so che perderò qualche altra cosa.
 
 
 
***
 
 
Seguii l’amica dietro la sua casa;
dove a sprofondo la valle arrivava
giù fino ai margini dell’autostrada;
 
ci inoltrammo nell’erba che più rada
ai piedi tutto il sogno disvelava:
l’amica mi indicò, chiuso da piccole
 
pietre arancioni, un altrettanto piccolo
mare. Mi disse: guarda la marea,
l’onda che sale.
 
E rimanemmo lì. “In contemplazione,”
scherzò l’amica. L’acqua alle caviglie.
Più lontano Corviale; il Serpentone.
 
 
 
III
 
 
Come si chiamano, chiedi, quegli alberi
delle zone di mare; quelli secchi,
con rami tipo mani che si tendono
a chiedere invisibili elemosine?
 
Pini qualcosa, dico; e il resto non so dirtelo.
Ma quanti ce ne sono, adesso; tanti
fino alla spiaggia, che dalla collina
scendiamo lentamente; e ai nostri passi
 
non chiediamo che continuare a scendere
senza inciampare: non sarebbe bello
al primo appuntament o già raccogliersi
sotto la luna, vicendevolmente:
 
non siamo – è notte – nel duemilaeventi.
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