Gino Giacomo Viti, giovane poeta dei castelli romani, è alla sua seconda pubblicazione poetica; anche se, a sua detta, intende questo libro come il suo esordio assoluto. Ed è un esordio dall’effetto estremo: un canto, tanto alla vita quanto all’assenza, che prende nome e forma di Charlie, un fantasma che è forse l’anima stessa del poeta, che qui si fa specchio irriflesso e insondabile, risonanza di un io altro, sedimentato fin dalla nascita e oltre la morte. Un lavoro dalla struttura poematica e dai forti connotati lirici, pur essendo dialogico, e pregno di un intercalare tra gli spazi metrici e l’abbandono, quasi fosse liturgia d’addio e di testimonianza la poesia, che da un lato si canta mentre dall’altro prende forma come preghiera o celebrazione di rito. Ma non soltanto rito inteso come solennità promessa al vacuo o prolungata litania silenziosa; ma una sorta di esorcismo teso a risanare il male, il ritorno in superficie della vita che è consumazione e frantumi. Ed è da questi frantumi che il poeta risale la china dell’anima, e da quell’altitudine lui vede tutto piano il desiderio di sapere, tutto in bilico tra la notte e il rinnovarsi del giorno che verrà dopo; ed è con questi luminosi frantumi e da quei luoghi alti (e altri) che Gino Giacomo Viti ci regala momenti di vertigine amica e di vera e assoluta poesia.
Antonio Bux
***
Charlie, sono stanco. Scrivo dal vetro
di una casa che ho incontrato
dopo essermene andato. Lisa
è stata rinchiusa in quel posto
fuori città, fuori mano. Ho fame,
troppa, per andare a salutarla.
Vedeva demoni. Fossimo stati
meno attaccati alle serate,
lo sai, li avremmo presi per noi.
Fossimo stati…
La via del Lago, dissolta la pèntima,
s’è capovolta alla tua assenza
e nulla ascolta e più non ci culla.
Non sa se, mancandoti, sai mancare
a questi rami, a ogni odore
dei fiori che ti narra in silenzio.
Ti scriverò forse dal colle dove
curvo lottavi per un’esistenza,
una vita, o per farla finita.
Charlie. Fossimo stati un passato
ti pregherei di riandare, ma non sai
restare lontano da questa rupe
sulla scalata – dicevano – sacra.
Fossimo stati…perdonami l’asta
che ti fece inciampare o l’astio
lo spazio che adesso ti stringe
ti costringeva allora ad andare. 9
Le radici, lasciate a segnarti,
a dire “ecco! Io ero”, sono orme
andate forse disperse nell’acque.
Giuro, le ho cercate, ricercate.
Giuro.
Non ho imparato a non esistere
in cianfrusaglie. Dicevi “frantumi”.
Quali fiumi ora mormori? Indiani
non siamo. Non più. Lo sai: non so stare.
Solo restare. Non siamo lontani
più di quanto Lisa non lo sia, tua,
la fanciulla, lo strazio senza sole.
Fermati al varco, arsenioforme:
voglio chiederlo adesso se posso
non credere alle stelle d’estate…
***
Gridare la grazia dell’acrobata
mentre ti scorgo nel tempio di Diana;
fra i resti le tue ceneri, Charlie,
macerie come il Lago che pesa.
Vidi la mano d’un demone tesa
a stroncare la sventura di Lisa.
Non impaurisci se l’acqua ti affonda,
l’alga ti tira e arriva l’occhio
alla gola …
***
Non verrai quest’oggi a seminare
la stanza che ci univa. Un pugno
di polvere, d’uva, saprebbe fare
del cerchio un’urna, ma non ritorna
l’ombra di Settembre a ricordarti
che è tempo – È Tempo! – di raccolta.
Stavolta, Charlie, sento il tuo congedo
ed è stretto, un lamento mai giunto
in questo paese – non mi hai detto
quel che sapevo ascoltare – Parli
ai fuochi dei tuoi giovani boschi
o ammutolisci in riva ad un fiume?
Sei il Lago alla gola, il Lago
alla tempia, il Lago alla testa.
Sai, eterno vorrei il tuo ritorno.
L’ha ripubblicato su poesiaoggi.