Si può ancora parlare d’amore – così tanto bistrattato in poesia – senza essere solo amore ma biologica sostanza dell’amato? O meglio, si può essere ciò che si ama, non per amare, ma soltanto per essere? Si può dare risposta, prova tangibile (e quindi arte) d’amore, senza passare dalla gabbia stereotipata del sentimentale spicciolo, dunque senza sbranare ma essendo sbranati? Questo sembra voler provare Letizia di Cagno (Bari, 1998) con la sua opera prima dallo strug-gente titolo Urla la fine che pianta germogli: ossia decifrare l’amore (e ciò che si ama) attraverso la dispersione del proprio sentimento. Il risultato di tale esperienza, ovvero quello che in questo libro resta al lettore, sono forse soltanto i cocci di un vaso in divenire, e la poetessa, da brava vasaia, lo sa bene, dato che ama il suo stesso invaso, ma anche l’incavo dell’amato, la sua lontananza che è proprio, e a ragione, dentro di lei. Poiché amore, per tutti, è stare da soli in due; amore ovvero sedimento, di una radice che alimenta due alberi. Questa è l’inversione dell’amore, la propria ri-conoscenza: un esistere attraverso l’altro e per l’altro, che siamo noi. Condizione nobile ma anche distruttiva, perciò umanissima. E cos’è il poeta, se non il più umano degli amanti, se non il più innamorato dei perdenti? Letizia di Cagno assimila bene questa lezione, offrendoci una poesia intelligente e sana, giustamente emotiva ma misuratissima, proprio come l’amore vero.
Antonio Bux
Discorso
Vorrei dirti guscio
strafatto di polvere e strade
malassate. Fuori
della cornice di una stella,
questo cielo ha di me
nulla che non lieviti con il comò –
la pagina piegata sopra
profuma delle mie stesse
mani. Vedi che è cresciuto qui dentro
il sogno più tiepido,
e ha un significato leggero
e vorrei bruciare l’occhio
strizzato di amore
perché un piccolissimo pendolo
mi costruisca la notte
[: fino a te sono giunta].
La mia lontananza intenerisce
un muretto sul mare…
senza mai sfilare i nastri
delle tue corde vocali –
ma ogni cosa è davvero in me?
Ti vorrei come il grembiule
tra le suore manesche
all’asilo e pure
la preghiera. Specialmente
quella annunciata per sbaglio.
Ammaipiù
Io di mio sarei nell’aspirapolvere
la domenica mattina, un orario qualsiasi
per ripensare Hundertwasser, portare
fuori il cane. Tappata di un pensiero a rose
e volendo appassire.
E poi ecco, un foglietto in cui mi dici
che mi ami e ha
gli occhi di tuo padre – se lo butto
lo conservo – senza aspettare sul serio
risposta. Perdendo ammaipiù
arrivederci ma di mio sarei
elenchi e carta forno strappata male,
un ceffone/supplica di mio padre.
Grata di un passo al tuo fianco.
La fine
Quanto mi tocca da vicino
la scoperta del mondo!
Io sono un improvviso sciame
che strimpella, ai piedi della tua dinastia
felice. Sopravvivo a sorsi
alla carezza. È la tua;
perché decido l’amore
come la realtà che sente la marmotta
nel centro della sua silenziosa
buca. Affondo le dita in una cera
che non ustiona – a quest’ora
cantano i fiori, il tempo
si preannuncia come garante
della Bellezza.
Sento la fine
sgranocchiare il mio pranzo.