sulla poesia mesmerica di Klaus Kinksi
Tutti conosciamo il Kinski grande attore, il meraviglioso spaventapasseri impiccato di ombre, col suo volto marchiato dal sempre, da quell’oltre indimenticabile proveniente da un deserto di voci. Pochi, o nessuno invece ha idea del Kinski che fu anche, da giovanissimo, e dunque eterno, poeta. Come eternale fu la sua poesia, un canto di fusione tra anatema e preghiera, un’invettiva a Dio che sa di dichiarazione d’amore. Così che il cannibale Kinski, il mostro di solitudine che compariva sulle scene, qui irradia i contorni di quel che sarebbe diventato, ovvero ossuta e oscura presenza di un assente in vita. Di un monstrum per l’appunto, il Nosferatu condannato all’ombra di vivere in eterno. Così da feticcio “mesmerico” di registi (su tutti Herzog), e cioè da sottomesso alla vita, Kinski, come in una sorta di premonizione maniacale, si trasforma in feticcio “mesmerico” di se stesso sfigurandosi attraverso la manifestazione poetica, espiando la colpa di essere cantando una poesia che oserei dire “oscena”, ossia fuori di sé, che si dipana sempre tra una continua vocazione elegiaca e un barocchismo pressocché performativo, perció teatrale. Ed è dunque anche una poesia carnale (ma della carne intesa come debole) accecata da un misticismo feroce ma vitale, che attraversa l’io dell’autore per ridare corpo finanche al verso, fino a farlo diventare simbolo di sofferenza, di agonizzante solitudine. Ma non è che la solitudine di Dio, l’ascolto del padre dal cielo che si prostra infine ai piedi della terra per accarezzare il figlio, quanto mai prodigo e infame in questi versi quasi epicediali. Così ci testimoniano le belle versioni di Antonio Curcetti racchiuse nell’antologica fuori commercio da lui curata dal titolo “Febbre – Diario di un lebbroso” (con una nota di Paolo Spaziani), e che dimostrano anche come la passio, attraverso questo incesto (tra Kinski anima e Kinski corpo d’uomo) diaristico, possa raggiungere livelli di struggevole anarchia, traversando l’anima, sì carica di energia ma già alla deriva, di un attore che, in scena come tra le pagine, più di molti ha saputo incarnare la solitudine del doppio, ovvero la fedeltà del nemico, tanto alla carne quanto all’eterno (·Io non so chi sono, né chi sono stato – / un estraneo davanti a me stesso – e ai miei occhi nuovo – e vecchio, quando mi guardo allo specchio – / io credevo d’essere a casa ovunque – e già ero / un senzatetto, ancora prima d’esserci arrivato -)”.
Antonio Bux
LA PAZZIA DEL MONDO*
Qualcuno ancora paga il prezzo della fede –
giace saldata al pancaccio la chimera sfiorita –
il becchino ha sbarrato la sua casa celeste –
ciotole opaline hanno domato ogni irruenza –
qui un marchingegno spunta da ogni dove –
e un tizio s’atteggia a sacerdote –
sul tetto si inchina l’uomo nero –
la corteccia di un albero è caduta.
Alle porte piombate ancora l’onda –
s’allunga come una sfatta puttana la follia –
ristagna nelle scialuppe l’azzurra brodaglia –
pendono esangui alle inferriate le vergogne –
agitano le gambe da fermi i bambini alla deriva.
Essi sono sopravvissuti a giorni difficili –
lo psichiatra ha messo in piega la sua faccia –
il cuciniere ha picchiato uno sano di mente –
ogni perché steso a tacere nell’ultimo letto.
Mi salutano bambini dai capelli amputati –
i piedi infilati in una scatola di fiammiferi –
quelli di lungo corso si stringono all’angolo –
un morto ingoia amarezza sotto il telo –
e nessuno di loro sa il proprio destino.
Ecco sfogliarsi i nudi fianchi delle pareti –
scrivere l’epilogo pungola le forze –
cruda la luce con cui scavo nel Tuo dolore –
e come avviluppato intimamente ai fiori,
questa la morte ch’io vado cercando.
* Manicomio – prima versione
FORSE DOMANI È LUCE
Forse domani è luce – io non posso berne –
e tanta generosità arriva a lambire
il vasto rifugio delle porte concesse –
un cieco deve stringere gli occhi.
Colmo di lontananza è il canto notturno degli uccelli –
s’apre sotto la navicella la visione del fango –
e sciolte lodi, quando la terra si divincola,
perché l’uscita di scena porti un po’ di quiete,
e la sorpresa è salire, il gran fluire del passato
nell’altra parte della clessidra.
Forse domani è luce –
uno spasmo addensa i placidi manti –
e nei momenti d’intenso pallore – a vivo mi marchiano –
resta grande la speranza degli occhi rinati,
che nella lunga caduta allo specchio si salutano.
AH, DAMMI LA MORTE
Il fuoco brucia – e dov’è il mio volto?
ah, dammi la morte, che io rimanga saldo,
non è più sul cristallo il mio piede mancino
e le Tue dimore, io neanche arrivo a toccarle.
Quanta speranza nel ramoscello, ormai nessuno più mi sorride
e ogni randagio alza il suo costato per respirare,
anch’io ho voglia di prati da cogliere,
m’ha già dichiarato il suo amore la follia.
Tu che concedi ai tetti d’abbeverarsi all’acqua,
che sorreggi da tempo le gambe divaricate
e con sempre più fatica l’arbitrio delle nascite,
concedimi di arrancare nel Tuo grembo.
Io Ti urlo contro, perché non si prega
nel silenzio colui che m’ha esaurito,
ignorato facendomi aprire gli occhi,
così io celebro l’estate di Dio.
Ah, lasciami la terra segnata dalla Tua orma,
mio l’emblema nel fiore umido di dolore,
di noi che dobbiamo cedere alla maestosità del sole,
e dunque Tu non dubitare, portami via.
IO – AVVERSARIO – NEMICO DI ME STESSO
Io non so chi sono, né chi sono stato –
un estraneo davanti a me stesso – e ai miei occhi nuovo –
e vecchio, quando mi guardo allo specchio –
io credevo d’essere a casa ovunque – e già ero
un senzatetto, ancora prima d’esserci arrivato –
io sono interamente fragile – e tuttavia mi sento
il più forte di tutti – a volte così resistente – spesso così fiacco
(insensibile alla derisione e ostinato – debole e senza volontà – codardo)
io in verità non temo nulla – e al tempo stesso temo tutto –
io non voglio restare solo – e appena non lo sono più,
desidero la solitudine.
Io voglio imparare, sì imparare, e odio il mio sonno,
perché rapina il tempo –
ma io sono così stracolmo di me –
io sono pieno d’idee cariche d’energia – e pieno di così tanta tristezza –
io voglio vivere e voglio morire – e spesso faccio entrambe le cose –
io ero così ingordo di felicità – e guarda adesso, io odio il pensiero della felicità –
io ero ovunque e in nessun luogo, quando ero in ogni cosa –
io ho creduto in Dio – tuttavia gli ho sputato addosso e ho anche
bruciato un crocifisso –
e buttato via la mia croce e la Madonna –
io amo il mio sole – e lo detesto, perché io so che
non riuscirò a sfuggirgli –
io amo le puttane, i ladri e forse pure gli assassini – perché io amo
il loro destino –
se essi ne hanno uno –
e amo anche i “pazzi”, così li chiamano – essi sono come ciechi
che vedono già da lungo tempo – amo anche tutte le puttane che stanno su di noi,
perché hanno così tanto da soffrire –
io fuggo ogni giorno – e quando la notte incombe, così che il tempo
possa allentare la sua presa sulle ore,
io m’ammalo perché il giorno non è più.
Io invoco l’aiuto di Dio – e lo derido e mi derido quando mi conforta –
e poi di nuovo lo scaccio – e quando vengo lasciato solo
e mi sento a pezzi,
allora io invoco nuovamente il suo aiuto.
Io odio tutti i bambini – e tuttavia quando ne incontro uno, m’inginocchio.
Io cerco me stesso – e quando mi riconosco, sono il mio
peggior nemico.
La mia stessa pelle brucia come fuoco –
e il mio sangue è imprevedibile come un animale –
io scappo da me e dalla mia vita – e odio la parte di me
che vorrebbe farla finita.
Però io prego Dio per avere dolore e vita amara –
e inquietudine dopo la febbre –
io voglio patire per ogni fiore, l’attimo in cui vivono la morte ——-
e voglio essere eternamente grato, al riapparire della primavera ——-
e voglio che la forza torni in me dopo la sofferenza.
Dio, dammi il coraggio di sopportare il tempo dell’attesa – fa’ che io non gridi
e per il grande grembo dammi l’umiltà.
FEBBRE
Io me lo immagino così l’altro mondo:
acido fenolico, ghiaccio e merda.
Ubriachi delle loro pisciate gli uomini
non riceveranno mai il dono della febbre.
Io ho la febbre del mondo intero negli occhi –
spietata e oscura la febbre si morde
eruttando come del pus sifilitico,
e rantola tra gonfie lucide bacche il mio cuore ostinato.
Io brucio di schiuma febbrosa
e la mia bocca è straziata di passione,
come i genitali d’un animale braccato.
Io sono un neonato con la cenere ai fianchi –
al cordone ombelicale mia madre m’ha trattenuto,
scagliandomi come un martello
fin dentro al culo scarnito del sole!
io come la più giovane delle madri cammino a testa alta,
sfuriando e gridando con la cenere alla bocca,
gli occhi pieni della collera liberata dal cielo sprofondato –
luce! luce! fiamme nere io divoro!
io caco sulle vostre leggi! in me tutto è offuscato dal sole!
lui spruzza il suo fremente nucleo nella selva
gassosa del mio corpo! ribolle il mio sangue,
come se dei lucci impazziti fossero nella cloaca della mia anima!
io sono una placenta!
io godo nel farmi dilaniare da una materna tigre,
invece d’agitarmi ai suoi fianchi! dinamo! dinamo!
la mia pelle mi va stretta – lacrime esplodono
sotto di essa – e io sono come una rana in un bicchiere,
la luce mi colpisce alla testa e io vengo ancora
respinto da ciò che vedo –
sole – sole – lui m’ha sputato sulle parti sensibili
del mio cervello – raggi raggi – nere minacciose ombre –
sopra di me – sotto di me – dentro di me come nel petto urlante
d’una donna – nella piaga aperta del mio cuore come un pugnale –
in me fremono globi infuocati –
come grandiosi uccelli in gabbia
i soli divorano l’urlo che mi porto dentro
e intingono le loro ali ruggenti nella mia
anima ferita – via via via via via!
io non lascerò tramontare quel sole che bevve lo stesso
mio sangue di ragazza – e cenere cenere cenere.
Mi stanno spingendo al delitto –
io sono pieno di macchie –
io non posso più vedere se ci siano ancora dei fiori –
il cielo è stato ridotto a brandelli
e uno potrebbe restarci appeso ——–