XXIX
E trasognando le vedi,
figure scarse,
livide come un delitto
o per sortilegio amorose.
Invidia d’una vita
senza le mie vertebre, un
non orgoglioso scorrere
facendo del sorriso
un’abitudine—come
in certe locande fuori mano,
sai, quando sbagli strada
e chissà dall’errore
cosa speri.
***
XXXI
Vegliare accanto ai solchi
ove semi insonni maturano
senza rumore, senza sognarsi
spighe, poi andar via,
orme superstiti
su rovesciate zolle, simili
al coltivatore dell’inverno,
orfano di terra, che inutile
andrà verso una casa
come farebbe la grandine.
***
XLI
È simile a un assedio
questa luce,
a un volitare in arnie,
e nessun ridosso per noi
che verremo espugnati
prima del crepuscolo.
Cosí ripensi all’inverno,
all’invenzione del buio
che mise in pericolo
i nostri sentimenti,
li costrinse nel respiro
ma li promise a marzo—
marzo che irrompe
come un teppista
nel cagionevole noi.
***
XLIII
La forza che vibra
– poi risonante per dire
fra assordati rumori
una stentata parola,
con suo ignoto pungolo –,
è lei, a indursi
nella convulsa fonazione
del pianto, il piú ostile
dei nostri richiami, che
non finirà con queste lacrime
non può mettersi d’accordo,
perennemente ci séguita ci spia,
come un adolescente in fregola
tien dietro alle donne sulla via,
aspetta che lo vogliano.
***
LXII
Spazio finito, orlo di tamburo.
Ti conviene incarnarti finché puoi,
racimolare luce anche di notte,
far cammino nella bruma
e non lasciarlo mai solo
l ’istante, se no punge ogni cosa.
In fondo, in fondo al mareggiare
dei tramonti, al maturare insicuro
bruciore senza trama delle pene,
il solenne episodio delle foglie—
stormire e basta. Stormire.