
MULTIPLO DI COSA INGOMBRA, L’ODORE
Multiplo di cosa ingombra, l’odore
ci lascia ammutoliti sugli stipiti
verso ponente, con zampe larghissime
di tartaruga. Pèndula dal ciglio
del tempo ormai questo giorno imbrunito
a foglia, a goccia, attento all’istante
che ci distacca e stilla trasparenti.
Un candore dall’alto, dopo il tuono
nero, svela in forma che blanda preme,
sulla pozzanghera molata al vento,
quell’unisono che ci fa più poveri.
Passano sul bianco dello stradone
le bocce, la festa, le biciclette
e un delicato terrore d’ognuno.
SI APRONO USCI AD ANNUNZI PICCOLI
Si aprono usci ad annunzi piccoli
come un dito, non so che sghemba
molestia di me voleva porto
alle pupille materne (quasi un
Aprile d’allora) e senza premura
c’incontra la domenica col giorno
suo, povero e lento come un portico
abbagliato; in alto campane,
le scarpette di biacca e una piazzetta
sotto, forte della chiacchiera senza
speranza. Un minuto si ferma alto
grande e non ha niente dentro, vola
con un più d’eco un trasumanato
motorino oltre le case che gonfiano
d’una sempre vigilia nel petto
e guardano chi va
con la pigra attenzione di chi resta.
VIVE D’ASCOLTI, IL PAESE TRA LE CASE
Vive d’ascolti, il paese tra le case,
quasi un firmamento cui nessuno
più concede il proprio stupore
e fin dai primi lampioni mi viene
chiedendo scusa dei suoi ricordi,
vuole essere capita ogni apparenza
e un alveare di chimere vere
dietro il dispettoso sangue, intimo
e lontano del doppio filare
delle finestre accese. In quel poco
tinnire di faccenda, nell’agile
dovizia verde del maggio, del tiglio,
che più uno fa, quel solo presente e
più ombra, i muri, donano ai muri.
RÒNDINA NEL MARE FRA CIELI LUNGHI
Ròndina nel rame fra cieli lunghi
oggi, oblique fughe alla grondaia
e soste d’amore sulla mano d’una
vita che non conclude; la lampada cuce
il giorno alla notte e seduti
vicini proviamo un bene lontano,
una stupìta obbedienza regge
l’arco oscuro della porta e tutto
pare possibile un poco, attorno:
nel vano dove scivola un respiro
di cielo fra due linee di tégoli.
Sghembi rimbalzi gialli di fari
dalla via rigano i muri rugosi,
la stanza ch’è ora, solo finestra.
Attraversa i geranei una taciturna
fragranza che fa di me un figlio,
di te, mia madre.
ESTATE
Vicenda di vita e d’anni fanno
uno scuro aere che s’annuvola
agli spigoli alti di corridoi
e camere e il nerofumo che stanca
l’imbiancatura, esce dai corpi
che maturano il verde della vita
alla corrente fiorita della terra.
Di tanto si schiara la fronte tua
di madre e la mia, che imparano,
oltre la cera della vecchiaia
nubilosa, un più trasparente volto
finale, un suggerimento che passa
vastamente inavvertito, qui accanto
al sole, all’aria del cortile attento.
Ma urgente, come lo snello mattino
d’estate che trapela alle imposte,
una irragionevole felicità,
dal disperso garrire dell’azzurro.
NEON IN CORSIVO AZZURRO
Sembra una minaccia fatta
per amore, il buio ventoso
e commerciale di via appia,
le luci portatili sui motori,
un’autofficina generale qui
soggiorna oleosa e chirurgica,
ma più un cubo d’emergenza
generica e continua, corridoio
comune della mente, irrompe
nella velocità l’appello
opaco e vischioso; per un po’
ruba il mondo, l’acciaio multicolore
in depositi firma questa retrovia,
ma più, la spericolata paura libera
annusa delicata l’aria della vita
farfalla d’ognuno, folla di tutti…
Ma una dolcezza presupposta
e piovosa è messa lì a freddo
solo per compiutezza di disegno
dal neon in corsivo azzurro,
stretto grigio-sera angolare
e pochi oleandri, in chiusura
si ritira un bar dell’io medio
e transitorio.
Del presunto passo della vita,
nel vacillare lento d’ogni sua
vana forma vera, sono, a volte, alla
sommaria evidenza degli occhi
non senza velo e sforzo, anche
le sue facili, esposte felicità.
S’è fatta periferia, scesa
da bus e metro tra i primi
fari e quell’assillo da inseguiti
minori, stringendosi a questo adesso.
Fissità di tutti nella pensilina
assoluta, con le borse del ritorno,
un cemento d’attesa pallido
e vivente e ognuno già è casa
porta chiusa, rapido il buio
novembrino nel vialone svogliato,
steli alti di luce in prospettive
lunghe, un destino ridotto e stanco
d’esserlo, inciampa addosso alle
vite che spinge.
C’è un camice lilla, sopra una fibra
sua di quotidiano, sospesa
dal proprio continuo, sfila
un pensiero da vetrina al di fuori,
sue interlocutorie seduzioni
sghembe ammissioni, l’illusione
che più le pare sentimento e sosta.
Le oscilla nel volto il soggettivo
fluente dei riquadri accesi
dai muri, l’evasività singola di una
formale aiuola rotatoria, la sobria
ferocia della lamiera ondulata.
Che insiste nel cerchio,
l’eco coabitante di un bacio
che si rincorre, nelle sparse
proposte della lacrima; perde ora
la magnolia, la foglia che più aveva
voglia di terra, attuarsi forse
d’originaria ombra che, nella
strettoia mondana, cala riservata
desolazione e pare farne albe
pare farne corpi,
ma è la vetrina delle radio
a coglierla sul fatto,
d’esser lì, sul set del presente.
POESIE DI GIULIANO GORONI
da “Stanze della vita”, Rotundo, Roma 1988