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altrove li chiamano Steinmänner, uomini di pietra.
Da queste parti invece, un po’ maldestramente, ometti.
Sono le piramidali montagnole di sassi
che sull’altopiano invaso dalla nebbia
amichevolmente indicano la traccia:
quella da seguire senza cadere nei crepacci
o scivolare giù in ghiaioni ignoti e improvvisi.
In tempi remoti, monumenti:
sepolture o santuari di pietra lavica o calcare
eretti, sotto le male nuvole
e i corvi in pattuglia ritornanti,
in forma di pegno o rispetto per i morti
o forse (ambigue le sragionevoli ragioni
dei viventi) per impedir loro di svegliarsi.
Ora però ci dicono, in tanto affannarsi,
qual è il sentiero irriconoscibile.
Segnavia e segnavita.
Talvolta, tra fossati asciutti
dove abitano neri millepiedi
e qualche lucertola passa sul mezzogiorno,
vi crescono attorno cespugli di rovi pungenti:
more mature e amare.
Assaggiale. Sanno di sangue.
da Ablativo ( Einaudi 2013)
*
la litania dei casi recitati al ginnasio
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche colpevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo.
da Pasqua di neve (Einaudi 2008)
*
«Arcadia» diceva il cartello stradale.
Ma nessun pastore nei pressi.
Pecore sì, brade
e in divagante marcia
su verdi-brune colline levigate
dal rullante tornio dei secoli.
Miracoli in vista, zero. Per fortuna.
Già alta la luna nel cielo
– il cielo che la parola invoca
e che subito lascia
sola e vuota nell’indaco
da La sostituzione (Einaudi, 2001)
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parlare qui non è vedere
o alle nere figure annuire
che sciamano nella notte
sulla passeggiata lungo il porto,
ma scambiarci quanto in noi
c’è di più mortale
in attesa d’andare,
avanti giorno,
per legna sulla spiaggia
dopo la mareggiata
da In controtempo ( Einaudi 1994)
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l’impassibile serenità del mistero
se ne infischia di ogni aspetto fiero:
mi tiene tacendo in iscacco
mentre guardo alla pagina
e a chi, dietro le righe, si agita
quando le sirene marittime
traversano la notte
si fa la figura del matto a credere
che suonino per le nostre lotte.
Enrico Testa è nato nel 1956 a Genova, dove insegna Storia della lingua italiana all’università. Dopo Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani 1988), ha pubblicato da Einaudi le raccolte poetiche In controtempo (1994), La sostituzione (2001), Pasqua di neve (2008), Ablativo (2013) e Cairn (2018). Sempre per Einaudi ha curato Finestre alte di Philip Larkin, il Quaderno di traduzioni di Giorgio Caproni (1998), l’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (2005) e L’esistenza. Tutte le poesie 1980 – 1992 di Alberto Vigevani (2010). Tra i suoi saggi: Lo stile semplice. Discorso e romanzo (Einaudi 1997), Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento (Bulzoni 1999), Montale (Einaudi 2000), Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo (Einaudi 2009), Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti (Interlinea 2012), L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale (Einaudi 2014). È fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015). Tra i tanti riconoscimenti, ha ottenuto il premio Viareggio, il premio Pisa e il premio Pascoli.