MARIA BORIO – “L’altro limite” (LietoColle, 2017)

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LA PRECISIONE DELLO SGUARDO DAL SUO LIMITE OPPOSTO: BREVE CONSIDERAZIONE SU “L’ALTRO LIMITE” (LIETOCOLLE, 2017) DI MARIA BORIO
 
 
Si attendeva da qualche tempo, con una certa curiosità, l’opera prima di Maria Borio (Perugia, 1985), edita qualche mese fa da LietoColle nella bella collana Gialla Pordenonelegge.it. Perché quella di Maria Borio è una poesia di percezioni, ondivaghe e sensoriali, che si nutre della geografia dei sensi per formare il proprio dettato, a volte cogitante, altre volte più mellifluo. Ed è una concatenazione di immagini che si sovrappongono e si disfano, fino a concentrarsi in un pulviscolo fisico e metafisico, dove l’organigramma poetico ed emotivo tenta di decifrarsi attraverso l’auto determinazione della coscienza. Una poesia di forma e di ritmo insomma, tendente al prosastico, e dunque antilirica, ma anche di sostanza, che si nutre dei codici, dei simboli del pensiero, di quel pensiero puro di essere e di diventare. Ed è forse questo l’altro limite, come dal titolo della raccolta: il limite neutrale da dove osservare e inglobare la totalità straniante del mondo, per poi rigettarla nella tridimensionalità dei sensi, ma soprattutto nella provvisorietà del pensiero umano. E il senso più sviluppato qui è quindi quello dello sguardo, ossia la visione, che in questo libro si fa pratica quantistica e regolatrice: si orienta per governare le ingovernabili leggi del mondo e dell’inconscio. La prova, ardua, appare essere superata. Perché Maria Borio non solo pensa, e dunque crea, ma scaturisce anche immagini e sensazioni che sono proprie del mondo e dell’inconscio collettivo, proprio per questa capacità inversa, opposta del suo sguardo: ossia di rovesciare dal proprio limite – limite inteso come visione – la condensazione stessa degli oggetti e delle sensazioni. Ed è un risultato che non può passare inosservato.
 
 
Antonio Bux
 
 
 
3 poesie dal libro
 
 
 
*
 
Stesa sul letto a volte vedi forme,
 
curve che entrano e spirali che evadono.
 
Organi trasparenti in alto si aprono
 
e diventano una linea morbida che insegue se stessa,
 
pulisce dai colori scuri – il colore del sangue
 
o quello denso della carne dove nascono le api.
 
 
Nulla si rigenera, ma è prolungato, infinito
 
nella linea che separa gli oggetti e fa cose
 
per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio,
 
si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade
 
gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta
 
tra i continenti.
 
 
Tra il cielo e l’acqua questo edificio
 
splende in una luce illimitata:
 
puoi aprirlo, aprirti
 
a una lingua di toni aspri,
 
tornare nel suono rotondo di un’altra
 
riprendendo quei toni come finestre sul mare
 
o il ponte sospeso per il parco
 
dove le persone stese sull’erba sono api
 
e il sole sembra impedire la morte
 
anche se tra anni, milioni, un giorno
 
esplodendo.
 
 
Segui poi altre linee, quelle della specie,
 
forse come sapere che nascere
 
non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo,
 
e dal letto lasci il sesso arrampicarsi
 
attorno ai contorni di questo edificio
 
nel suo bianco, la stella nell’attimo prima
 
di esplodere.
 
 
La vita è ovunque, in una linea curva
 
ognuno abita come pensare.
 
Le api ora lasciano la bocca perché le penso.
 
 
 
*
 
Isola
 
 
Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola
 
sembra una faglia sull’orizzonte,
 
il semicerchio della struttura che dice
 
il potere di rendere solida l’acqua
 
e liquefarsi al momento
 
che hai finito di circoscrivere.
 
 
Qui le ore distinguono
 
il silenzio netto, il rullio dei treni,
 
le gocce nell’aria, le fibre –
 
ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:
 
 
le curve del tempo vuoto
 
la fuga nel sottopassaggio
 
l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo decongelato
 
gli artefici di questa pulizia di vetro
 
o una prova molto umana per fermare un azzurro fragilissimo.
 
 
Seduti al limite della fontana
 
ecco il sorpasso: il freddo incorruttibile
 
si restringe e una folla normale
 
scala i tratti del volto. Al bar mi dici
 
che è metafora del mondo
 
oggi trattenendo il cibo nella bocca
 
il grande vetro di questi edifici
 
e il cibo profondo negli organi:
 
 
meccanica e carne invisibili
 
e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro
 
entrando uscendo dal grande vetro
 
come l’arte afona e oscura di Duchamp
 
taglia a sezioni.
 
 
Nel caso premi la mano, può frangersi
 
 
o resistere come l’etere resiste,
 
 
e lì coscienti o da noi separati
 
 
puro e impuro,
 
 
il grande schermo di Isola
 
 
o un continente.
 
 
 
*
 
Sembra quasi che tu non abbia vissuto
tutti gli anni sconnessi
dopo la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua di invecchiare
− forse questa gabbia,
la sicurezza, o un pezzo
di vita come carne comprata.
Se sapessi quale filo invisibile,
quale corda tesa e bugiarda…
anch’io sotto l’alluvione
sotto al peso incalcolabile?
anch’io vorrei smettere di dirmi
io.
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