WANDA MARASCO – poesie da “La fatica dello stormo” (La vita felice, Milano 2013)

***
 
 
Io smette.
Era santissimo al risveglio.
Ora il misero è il mio sussulto.
Io mi allenta un ramo.
E’ tardi da qualche parte.
E’ ottobre con i semi
del fuoco incartato dal giardino.
Il giardino incarta i semi del fuoco.
Ma sì, la vecchia storia che è fatale
a se stesso il cuore delle cose,
a se stesso il cuore che ascolta.
Ecco:
te lo dicevo amica mia, lo sento
ora il misero è il mio sussulto.
 
 
 
 
***
 
 
Dell’amore che non volevo storto
l’amore del mio sguardo amore solo
presi sul fianco un corpo
forse avanzato a un dio
forse per sciogliere la pena
lo legai
a un pesco fiorito
che non era eterno.
 
 
 
***
 
 
E’ la candela del tuo compleanno.
Gli costa un lungo fiato
piegarla, spegnere in fretta
la fiammella astuta.
Ma credo questa sollecitudine
il gesto recitato e travolto
per cui sfuggendo dal resto
poi si muore.
 
 
 
***
 
 
Io spingo al suo fantasma il giorno
e penso ai fogli che correggo
mille da sfondo di natura
nel punto in cui
la somiglianza annulla
come un errore angelico
la carne.
 
Spostati, Pietro,
è per questa bella amicizia
quando gli animali
si stringono di più
e non al mondo
ma al braccarsi che ci è dato.
Bisogna raccogliere le pecore.
Bisogna farlo prima del dirupo.
Se non morivi io non scoprivo
questo brumoso e caro
gesto del pastore.
 
 
 
***
 
 
Bambini.
E non sai che cosa dici.
Quanti ne vuoi nel sangue
che già non abbiamo forato
il mondo di pietà?
Bambini.
E li hai portati in corpo
come amuleti astratti
con il dolore
di non domare niente.
 
 
 
***
 
 
Ma io pensavo al tipo di segreto
corso tra fronte e spina un giorno.
 
A te pensavo, padre, nel nodo delle mani.
 
Al passo scalzo con cui cadesti.
 
 
 
***
 
 
Il mare finge.
Finge la città.
Le rive sono neri moli
l’obliquo metallo resiste
il mercato si strania
diventa un aldilà.
Gli animali sono più muti.
rosa tramontale e amianto
vanno a braccetto per finte nuvole.
I bambini hanno imparato il nome
dei campi avvelenati dove
una volta scalciavano sudati.
Erano il mio coraggio,
il loro desiderio
di possedere una capretta.
 
 
 
***
 
 
Dice che si è fatta più vera
e più triste l’umana turbolenza.
Stuprano.
Oltre la carne anche il dramma.
La morte capisce la vita e agisce
come un pazzo che la intenda finta
nel muoverne la coscienza
fino al nudo finale finendo
nel niente che si può vedere.
Questa spiegazione è la madre.
 
 
 
***
 
 
Quando per noi muro per muro
è la nevosa piega del silenzio
quasi un cammino
avrà ragione il cielo
ad apparire sfondo
di un volo stanco
o dell’innamorarsi illuso.
 
Mi chiedo se può
contro la luce
il corpo farsi pozza viva
mancare come mi manca
il sogno di tornare.
 
Dimmi se il lato triste delle cose
a volte sa splendere nell’ombra.
Se ripossiede il rogo
nascosto sul retro della stella.
 
 
***
 
Resta con l’oro la spettrale insidia.
Ma l’oro è falso e tu sei andata via.
Esco per strada
sento le tante spinte plumbee dentro.
Una ragazza corre
un grido la insegue.
La guardo
con gli occhi appannati dalla pioggia
e vedo il velo in cui svanisce amore
e dietro il corpo il lampo che seduce
spinge la cicatrice a uscire
più dell’addio fuori dalla pelle.
 
 
***
 
 
So che mi regge ancora la tua mano.
Vorrei vibrare sotto un fiore
solo per te quel giorno
dirti come si deve dire
che un’onda fino a te mi porta.
 
Ti sento, sai.
Perché non era solo amore umano.
Sento il tuo bianco sangue
trabocca ancora
spirito e senso verso di me.
Sussurra
come può esistere il perdono
tra i due quella pietà di sé
che in forma di dolore
a volte ci geme.
 
Questo volevo, questo voleva
l’oriente voltato nel suo sole,
che perdonassi
perché non abbia oblio il ricordo
di quando m’inseguivi.
Dietro di me volavi
facevi la fatica dello stormo.
 
 
***
 
Oggi l’umile prato non basta
a fare la cinta della terra,
il quadrato confuso
dall’unghia della merla
o dall’altra misura
della rosa sfebbrata.
Quando tornai
sul lato in luce
piantai la rosa.
La casa era un ricordo
che non volevo perdere.
Volevo che fosse il vizio di adorare
il racconto del giorno,
lungo il muro fiorito
dove il giardino sembra non finire
non vuole finire
mentre un’ombra lo perde
un chiarore lo prende.
 
 
di Wanda Marasco
 
12 poesie da “La fatica dello stormo”
(con una nota di Milo De Angelis, 92. pp., La Vita Felice Edizioni, Milano 2013)
Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...