FRANCESCA DONO – 11 inediti e una dichiarazione di intenti (con un breve appunto di Antonio Bux)

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BREVI APPUNTI SULLA POESIA DI FRANCESCA DONO
 
Francesca Dono, senza nessuna novità o intenzione nuova ci offre la sua originalità, la sua perversione giacché non intuitiva è la sua poesia, ma direzionale, e in questo mondo perverso e diabolico la poetessa sceglie dunque di farsi spartiacque piuttosto che invaso. Essa stessa più fiumi e non lago o fondo. O meglio, fondo straripante di detriti. Partendo dal presupposto che “tutta la poesia è mistero”, dice Francesca, e già qui le si allunga il naso (e mi permetto di citare un mio verso: “Un pinocchio bruciato ci gioca”); così il suo Pinocchio ancestrale brucia dello stesso legno umano che arse le torri gemelle. Il demone, dunque il pensiero, umano che si continua all’infinito. E in questo infinito, tra questi quanti, cosa rimane da fare? Posizionare i meridiani tramite il mancamento quotidiano. Essere bussola senza scopo. O meglio, con lo scopo di scombussolare il proprio Ego. Perché, riprendendo ancora il pensiero della Dono, si è “Sempre in direzione della domanda fondamentale dell’uomo”. E la domanda fondamentale dell’uomo non è forse “perché io sono io? Perché io sono qui?”, insomma la domanda imprescindibile risulta sempre “Perché”, una domanda nella domanda, e la risposta è dietro l’angolo della vita. Ed ecco la polvere dietro l’angolo, l’angelo dimenticato, e a volte, spesse volte, il demone ringalluzzito. Perciò discernimento e sottrazione, o selezione naturale: questo deve fare lo scrivente. “Sempre per ogni contraddizione ad essa connessa”, parafrasando ancora Francesca. L’animale non è anima, o è soltanto anima? Ed ecco “la frammentazione”. Gli scarti dimensionali rinchiusi in un corpo che si vorrebbe dire. “Ecco perché tutti i miei scritti non hanno un vero e proprio inizio”, e questo vale per tutta la poesia di chi non riesce a dire aiuto. Perché aiuto è la parola della poesia per eccellenza. Ma non aiuto come salvazione, bensì aiuto come testimonianza, passaggio tra più distanze. Tra la distanza della creazione e la vicinanza del divino. Qui si gioca a fare specie. Non per rappresentare, bensì per mascherare e smascherarsi, forse. Perché poesia si scriverà sempre, fin quando l’uomo sarà uomo, e la sua faccia come una medaglia, col corpo chiuso tra alberi e portafogli, e l’anima venduta e ricomprata, l’anima usata, l’anima manierata. Ecco perché siamo immagine, perché l’immagine è volgare, e ciò che si immagina è vulgata, ossia traduzione, tramandamento. Tramandamento di seduzione, di sedimento. E ogni vera poesia è sesso (perciò divino frammentato), ed è sentimento (e qui divino e diabolico si mescolano e annullano) di condivisione. E la poesia di Francesca Dono ha la capacità di essere condivisione e annullamento, sì straniante ma al tempo stesso vero, e la forma che la usa è contemporanea ma anche mitica, preternaturale. Perché figlia di questo nostro essere del mondo, di quel mondo mediterraneo e interattivo che ci inghiotte restando sempre a galla, in questa galla che è la galera di esistere.
Antonio Bux
 
 
 
11 poesie inedite di Francesca Dono più una dichiarazione di intenti 
 
 
 
 
-lei si chiama “Wonder Woman”-
 
lei si chiama “Wonder Woman” come
ogni mattina quando un livido tocca
la sua guancia. L’altra donna è madre
del grande affresco incendiato sulle pareti di casa.
Una spanna di menzogne le unisce .
Entrambe due bambole . Per questo tra
poco lui ne coprirà una di sperma e l’altra
di saliva.
A malapena le mani viscide. Nell’urgenza
della carne la vecchia mela marcia. Così le gira
la testa. La urta fin dove la vulva assente.
-Bene_ lui dice. E’ solo la cerimonia
della caccia _ bella “Wonder Woman”.
Ma il pendolo non mugola.
La bestia ha un lungo rampicante dentro
la pancia. In un certo senso infimo e da
pezzente senza pace.
 
 
-nero – burro-
 
un chirurgo silenzioso. Il lettino bianco vicino
all’angolo smagrito. Gli attrezzi e i fili di sutura
sono disposti sul vassoio di metallo. Così una porzione
di mani imprendibili. Ma l’uomo è sottile. Con un soffio
preciso si piega. Un passo dietro l’altro. Eccolo come un
assassino dentro la mia vagina in attesa della notte piena
di vuoto .La stanza ora ha un condotto subacqueo. L’odore
dell’anestesia iniettato fino alle finestre. I pianeti dormivano.
Anche la poesia nello scavo verso il basso. Per te la fuga in anticipo .
Un destino. Il cavallo nero-burro che orbitante cavalchi da ogni parte..
 
 
l’alba nel gelo
 
l’alba nel gelo_ una banana quasi rinsecchita
in mezzo alla tavola. Faccio colazione con le noci
del bosco. Nel caffè una puntina di osmio. La tazza
non ha manico _ si dilata mentre fissa l’orologio.
E’ tardi. L’uomo delle pulizie laverebbe i tuoi
piedi a ogni gradino in discesa per le scale. Un giro
di lavatrice. I panni sporchi cadevano nel tuffo della
schiuma. Non c’era neanche l’autunno.
 
 
-welfare-
 
(.) Fu coperta la diga e ognuno di loro
cominciò a gridare: welfare_welfare.
Senza ossigeno. Sottovento. In lontananza
le gallerie_ un barcaiolo decapitato fin dal
primominuto. Ho atteso le luci della ferrovia.
Forse lui sarebbe passato indenne dal branco
dei lupi arrabbiati. Gli uccelli con i rovi sfioravano
i pilastri del ponte. Iridescente uno di quelli caduti.
Probabilmente morto in alto.
Sul mio corpo separato nel nulla.
 
 
 
-un fiume autoctono sulla foglia latitante-
 
siamo in due nel boom dei clacson
in viaggio. La corsia si compone come
un fiume autoctono sulla foglia latitante.
Il taxi è un coperchio teso .
La pioggia ha le mie scarpe ammutolite.
Lui indicò l’ora e il minuto della punta
che ripartiva l’eclisse sul lato del dispositivo
poco illuminato.
In ritardo lo squarcio delle mani. Proprio
sul volante le curve di ogni mutamento
quasi inaspettato.
(A metà del tragitto ho letto : vietato l’ uso prolungato del cibo).
La sua sagoma si dipinse
dentro lo specchietto di un pomeriggio straniante.
Tutti e due avremmo scavato l’asfalto
pur di oltrepassare la trama dei lunghi casamenti
girati a spirale per il panorama.
Il tempo di un respiro i segni
delle mie gambe impresse al destino.
Lui mi diede quattro monete
nel palmo di uno shuttle ruzzolante
con l’aria serale.
Poi (per intero) la brusca frenata davanti
al numero del portone ormai logoro .
Tutte le zebre erano scomparse
dall’altra parte.
 
 
 
-il tuo stile-
 
il tuo stile? Dalla gonna in giù qualcosa
scende dietro il ginocchio andante.
Il solito quarto d’ora_ amore mio.
Ti ho salito per un paio di giorni le calze
a rete. Lo stesso allaccio button-down
attorno al colletto. Che tristezza!
Avevi di nuovo tirato il filo del maglione.
In apnea maniacale. Con le mani tardive accanto
al cellulare rovesciato.
-Quasi un effetto collaterale_ disse la tua bocca-
Incautamente le altre lune in successione. Gli strani gomitoli
della marijuana.
Siamo stati
due milioni di uomini per ogni minuto _ amore mio.
 
 
 
-tell me I’m not dirty –
 
un primo ventaglio mi portò la guglia del tempo
sulle statue intagliate dal sasso. Contro le vetrine
la folla rigorosa. Altre stalattiti spanciate dietro le lampade
del rumore. Affondavo la mia gamba sinistra . Poi la destra
nel peso libero di uno spillone flesso davanti agli occhi.
Nel nulla l’ora vitrea. Fui l’unica a ingravidare la neve
con le fibbie rivolte alla seconda scia di certi strappi
in movimento. Il vestito era flebile sotto la giacca.
Tutto nella crudezza della nostra “pipeline” di razza
asciutta . Ho allevato un quarto di montone. Persino
la tua suola girevole intorno a svolati piccioni.
-Tell me I’m not dirty – Essa recitava_ ma senza senso.
 
 
-nulla per questo spazio comune-
 
ancora un altro giorno. Da poco accade
qualcosa che è passata sotto la ruota
retro gravida di una macchina in moto
sulla strada.
 
Nulla per questo spazio comune.
 
All’alba il disturbo silenzioso si ravviva
dentro la mia bocca piena di formiche .
Incredibilmente beffarda la poesia con
l’ endometrio privo di fiori.
______ Esisto?
Nella stanza una credenza sfaldata.
Solitari soprammobili
digiuni di luce. Sopra di essi vago limitrofe.
 
 
 
-di sublime nulla-
 
di sublime nulla . In stormi le braccia
disadorne nel buio avanzato del sole.
Gesti murati. Solo per caso ho intravisto
la tua figura sotto l’ultimo ombrello estratto
dall’aria di tungsteno. Tutto in distanza irregolare.
Sempre verso il vuoto successivo. E’ vero _ gli
specchi acquatici nuotarono insieme a noi fino
al bacio dell’orizzonte elettrico . Ma Dicembre
lasciò cadere le foglie e parti del mio corpo
dentro una pozzanghera- grattacielo . Così un lupo.
Le macchine sbucciate. Il venditore di caldarroste
poco incline al vento caldo. L’universo era come
una centrifuga dell’istante. Banalmente spingevo
i piccoli bottoni ai denti aguzzi.
-Loro mi bisbigliano ancora : we will not let you breathe.-
 
 
 
-non ho nulla da dirti-
 
senza nome la piantagione. Senza carne
le forme nel flusso impalpabile.
-Io sono la pietra _darling- Per forza i miei
piedi rimbalzeranno finti e malati in ogni
cortina di vapore.
-Non ho nulla da dirti_ darling-.
Rapidamente al cloroformio la bocca
sfiorata dal vento.
 
 
 
-nulla sulla neve-
 
nulla sulla neve.
Eterno il silenzio nel circuito itinerante.
L’orma del lupo in me e nell’altra ombra
che cade vicino agli orologi fluttuanti sotto
il grande muschio Dove un caldo sigillo?
Dentro la baita mi sono seduta. Le stanze
spoglie circondavano lo sguardo lucido di
oppio e di sonno. Sul sentiero c’èra un’alpinista.
In traiettoria la linea curva del bosco. Un mammut
fatto di ossa. Il mio corpo insufflato al centro di una
vescica.
 
 
 
dichiarazione
 
Partendo dal presupposto che tutta la poesia è mistero, io scrivo alla ricerca di una probabile verità addirittura improbabile. Scrivo per guardare oltre l’apparenza e il razionale e il vuoto. Premetto che sono convinta di vivere in un continuum temporale costituito da fluttuazioni. Cosa potrebbe succedere tra un’onda e l’altra? Nello stesso momento puoi essere a destra e a sinistra e in alto e in basso. Quindi non hai luogo né tempo. Chi potrebbe contraddirmi in questo? Chi potrebbe vietarmi di vedere o essere Argia piuttosto che Polinice? Chi potrebbe tagliarmi le ali per alzare altri mondi e altri paralleli con mille personaggi in altrettanti effetti prismatici? Io, l’alter ego. Tu, noi. Io che diventa lui o lei ossia un altro che può valere il mondo e tutti. Sempre in direzione della domanda fondamentale dell’uomo. Sempre per ogni contraddizione ad esso connessa. La frammentazione? Soltanto questo posso recuperare nel tutto. Ecco perché tutti i miei scritti non hanno un vero e proprio inizio. Non c’è un inizio se quello che in me appare è senza tempo e in frammenti apolidi. In un certo senso, la creazione ci avvicina al divino o no? Forse la creazione stessa è un modo per incamminarsi lungo la via della conoscenza. Dunque la poesia come rappresentazione del mondo e di conseguenza dell’uomo contemporaneo. Poesia? Possiamo scrivere poesia dopo il Nazismo(ADORNO)? Cosa si può scrivere oggi per il futuro? Niente di tutto. Dire per non dire. Mi reputo solo un osservatore esterno al mio io. Un cronista di parole e di musica che annota l’accadimento attraverso l’invisibile percepito. Tutti i miei collegamenti? A volte non esistono. Spesso sono intuizioni che nascono sempre dall’immagine e da ciò che affiora soprattutto dall’inconscio. Quindi una scrittura focalizzata per inquadrature e scene a volte crude e volgari, per strati che vagano asimmetrici e secondo lo spazio e la posizione dell’occhio. Questo il mio linguaggio. Mio? E fino a che punto? Non ho nessuna sicurezza a riguardo. Nel dubbio della nascita e nella certezza per la morte si può anche esistere. Abbiamo dimenticato la nostra grecità. greco
Francesca dono
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3 thoughts on “FRANCESCA DONO – 11 inediti e una dichiarazione di intenti (con un breve appunto di Antonio Bux)

  1. Pingback: RANCESCA DONO – 11 inediti e una dichiarazione di intenti (con un breve appunto di Antonio Bux) – ilgrovigliodeirampicanti

  2. Complimenti a Francesca Dono. E ad Antonio Bux per aver segnalato questa poeta che a ragione si può considerare voce nuova nel panorama della poesia italiana.
    Difficilissima da classificare, almeno per me che so quasi niente di critica letteraria; ma proprio a volerlo fare penso a due fattori: il surrealismo, per come ci arrivò Tomas Tranströmer – ad esempio dove Francesca scrive: “…gli / specchi acquatici nuotarono insieme a noi fino / al bacio dell’orizzonte elettrico” – e un po’ lo sperimentalismo, a patto che di quest’ultimo si consideri solo l’aspetto relativo alla devastazione del linguaggio; perché a ben vedere i paesaggi della Dono sono molto ordinari, basati sul quotidiano istante, ma è la parola che dà vita e sorprende. Si tratta inoltre di poesia strutturata per frammenti, così come la intendono ancora troppo pochi poeti italiani ( Mario Gabriele, Steven Grieco, Giorgio Linguaglossa e altri) ma tra questi Francesca Dono si muove con assoluta indipendenza e originalità.

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