Le geometrie in fiamme di Antonio Bux
(su Trilogia dello zero, Marco Saya Edizioni, Milano 2012)
“La nostra azione è sempre determinata dalla consapevolezza che solo in questo preciso istante essa può essere agita, definita in tutti i suoi caratteri, cioè realizzata. E che in altro tempo essa mai più potrà essere se stessa, essere ciò che vogliamo che sia…”.
Queste parole del filosofo Andrea Emo (1901-1983), che, senza coltivare nessun tipo di rapporto accademico né di dialogo con i filosofi suoi contemporanei né tantomeno con più giovani allievi, compose, nel più assoluto riserbo più prossimo all’esperienza dell’oblio, circa quattrocento quaderni di pensiero in atto, possono paradossalmente incontrare, in qualche relazione postuma e arbitraria, questo volume nero edito da Marco Saya Editore e intitolato Trilogia dello zero, consistente opera prima di oltre trecento pagine di un giovane poeta pugliese che si firma Antonio Bux, pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli (Foggia, 1982).
Apparentemente il comportamento editoriale di Buccelli, che a trent’anni appena compiuti decide di pubblicare una sorta di auto-antologia suddivisa in tre sezioni, corazzata da una folta schiera di interventi critici (a firma di Sebastiano Tommaso Aglieco, Gian Ruggero Manzoni, Alberto Mori, Margherita Ealla, Massimo Barbato, Guido Caserza, Luigi Abiusi, Diego Conticello, Vera D’Atri e Lidia Riviello) non ha nulla a che vedere con l’esperienza dell’assenza in vita del filosofo Emo, che, intendendo l’esperienza del pensiero come “una discesa agli inferi, un’esperienza della morte e dell’oltretomba”, considerava la propria scrittura “una epistola che io solo a me soltanto intendo scritta, come al più degno corrispondente” mentre la socialità “è il nido della menzogna” e l’uomo pubblico “sa di avere fatto un patto col diavolo, di avere venduto l’anima, cioè di avere rinunciato alla verità”.
Eppure questa Trilogia dello zero, che ha tutto l’aspetto di un’opera aperta e provvisoria e non è detto che nel tempo che intercorre dalla pubblicazione alla mia lettura non sia già mutata di aspetto e struttura, ha tutte le caratteristiche del diario di appunti postumi da un fondo occulto della vita dove un soggetto senza nome, ambiguamente vivo, compie i suoi esperimenti percettivi su sé stesso (di questo si tratta, di continue verifiche di esistenza).
Ho l’impressione cioè che anche una certa ansietà di esserci o di essere visto e letto in Buccelli, la compulsività del pubblicare testi e appunti di brani in fieri, nel libro così come nella realtà (virtuale; dove si incontra e spia la nuova generazione poetica italiana), risponda a un suo (del poeta come rappresentante di una società) profondo dubitare della propria esistenza materiale, a una necessità di toccare con mano le conseguenze reali a taluni gesti arbitrari lanciati come pietre nello stagno.
Potremmo dunque dire che l’arte poetica di Antonio Bux abbia uno spirito profondamente gestuale e performativo come un esubero di energia psichica che si sfoga in una sorta di automatismo della scrittura incanalandosi, per la necessità di una concentrazione, in forme geometriche e rituali, in una sorta di reiterazione formale che si manifesta a partire dal titolo e arriva al cuore dell’opera, cioè al capitolo centrale de Le ore chiuse, dove l’io poetante sperimenta su di sé una dissociazione chimica (l’uso, biografico o romanzato, di un anestetico) attraverso cui descrive due giornate scandite in due tranche di ventiquattro ore l’una (più una venticinquesima eccedente al centro) per un totale di quarantanove dittici speculari che ripetono, eccetto una manciata di variazioni, la medesima liturgia: una lirica di osservazione analitica dell’esperimento cognitivo (sulla strada di Antonio Porta e Nanni Balestrini; ma anche, in taluni smottamenti inorganici dello sguardo, tra filosofia dell’anti-io e lirica, del grande poeta portoghese Fernando Pessoa) e un promemoria a piè di pagina, un controcanto che s’apre sempre con l’espressione “Ricordando che…” e che verrà ripreso anche nella sezione successiva.
L’esperimento di ingabbiare questo flusso di energia semantica in un circuito chiuso, per evitarne la dispersione immediata a cui è inesorabilmente votato, è un esercizio performativo di durata e horror vacui (si esiste fino a quando si è in grado di durare, e di parlare) che si conclude ad ogni modo con un ritorno al grado zero: “E allora cosa farsene / di tutto questo vuoto / come riempirlo tutto / – tutta una vita tirarla / dentro – farla crescere / e poi una volta grande / ritornare a farla piccola / nella presunzione della forma / che ci mostra tutto il vuoto / per non farlo diventare pieno.”.
In questi versi è espressa tutta la dualità dell’operazione concettuale di questo libro. Da una
parte lo “zero”, la nullità neutrale dell’esistenza, è uno sgomento da posticipare per mezzo di una indeterminata espansione linguistica, danzando sul ghiaccio: “Ogni movimento è azione d’altro scorrere: / come l’onda nel suo espandersi / […] / Per questo tutto lo spavento dello spazio / è legittima difesa nel non luogo ad essere”. D’altra parte tale legittima difesa viene autodenunciata da sé stessa e in sé stessa. Il “taglio” di cui parla Jean-Luc Nancy in Fare i conti con la poesia, per cui la poesia è una “resistenza alla dismisura del linguaggio”, è in questo stesso disvelamento, in questa resa dopo una lunga e disperata improvvisazione di disarmonie geometriche, un infiammato assolo per sassofono che al tramonto arancio di una città mediterranea si chiude con queste ultime note: “Ma mi arrendo, / e decido che le parole mutino in deserti / e i nostri corpi nella fiamma del tramonto”.
Forse proprio in questa calda notte d’estate, nel silenzio che segue chi ha molto urlato, egli
incontrerà un fiore bianco da contemplare nel deserto.
Buon viaggio.
Davide Nota
(dal blog “Fonti coperte”, tenuto sul sito de “LʼUnita”, 2013; ora in “Lettera a un giovane poeta in Italia – e alcuni scritti precedenti 2010-2014”, I.R.L.P. 2014)