Le cime degli alberi non sono così alte
Né io sono così basso
Da non sapere istintivamente
Come sarebbe volare
Attraverso i varchi aperti dal vento, quando
Le foglie si muovono
E c’è un oscillare di rami
Che si abbassano e si alzano.
Qualunque sia il mio genere,
Non è assurdo
Confondermi con un uccello
Per la durata di un sogno:
La mia specie non ha mai volato,
Ma io in qualche modo so
Che è qualcosa che molto tempo fa
Mi sono quasi adattato a fare.
***
Ebbene, cittadino passero, questo avvoltoio che chiami
innaturale, lascia che strepiti all’aria
sopra il putrido uffizio, lascia che porti su
la zavorra di carogna, e all’alta
punta del cielo resti ad incrociare. Allora tu lo vedrai che
non v’è uccello più meraviglioso nelle altezze del cielo, non
ali più ampie e più placide, non volo più vigile; seconda la
natura, nella sua orribile libertà,
I’uccello dal capo nudo. Perdonalo, tu che sfrecci
nelle navate degli orti, poiché è lui che divora la
morte, irride alla mutevolezza, ha il coraggio di porre
fine, rinnova la natura.
METEORA
Una donna che non ho mai visto prima
esce dall’ombra dell’uscio di casa
in quel culmine del tempo in cui è così
bella da svanire presto, o lei o il tempo.
A cosa serve giurare che mentre infila
i guanti un corteo invisibile di amorini
tripudia dall’architrave? Che il sole, stordito,
dimentica, confuso, di girare?
Eppure niente cambia mentre i piedi
perfetti ticchettano lungo il vialetto,
segnando le stazioni del suo corpo,
come mappa i paesi dell’aria una frusta.
UNA TEMPESTA IN APRILE
Certi inverni, con permesso,
piazzano un colpo duro, definitivo,
salano il suolo come Cartagine
prima di spiccare il volo.
Ma la neve fredda e scintillante
che preme l’aria oggi –
un modo dell’abbandono
come della resa.
I fiocchi non pesano
sui salici che pendono
tra i bianchi amenti, lenti
come petali alla deriva
poi si sollevano
e brillano nelle altezze
abbaglianti come le foglie d’estate
sbalzate nella luce.
Questa tempesta, se ho ragione,
non sarà completamente finita
finché i campi verdi, là e là,
non diventeranno bianchi,
e nell’aria fredda sbuffi di latte.
Richard Wilbur
Richard Purdy Wilbur (New York, 1º marzo 1921 – Belmont, 14 ottobre 2017) è stato un poeta statunitense. Nel 1987 è stato nominato Poeta Laureato degli Stati Uniti ed ha vinto per due volte il Premio Pulitzer per la poesia, nel 1957 e 1989. Wilbur è nato a New York ed è cresciuto a North Caldwell, in New Jersey. Wilbur pubblicò la sua prima poesia sul John Martin’s Magazine quando aveva solo 8 anni. Wilbur è anche un traduttore, specialista del francese del XVII secolo e ha curato le traduzioni delle commedie di Molière e dei drammi di Jean Racine. La sua versione de Il Tartufo è diventata il testo standard adottato nelle versioni inglesi della commedia. Proseguendo nella tradizione di Robert Frost e W. H. Auden, la poesia di Wilbur trova la propria ispirazione nelle esperienze della vita di tutti i giorni. Meno nota è l’attività di Wilbur come paroliere. Nel 1956 ha scritto i testi di diversi brani del musical di Leonard Bernstein Candide, tra cui le celebri Glitter and Be Gay e Make Our Garden Grow. Tra i premi vinti si ricordano il Premio Pulitzer per la poesia e il National Book Award, entrambi nel 1957, il Premio Edna St. Vincent Millay, il Premio Bollingen e l’Ordre National des Palmes Academiques. Nel 1987 Wilbur è diventato il secondo poeta, dopo Robert Penn Warren, ad essere nominato Poeta Laureato degli Stati Uniti dopo che il titolo era stato cambiato da Consulente per la poesia. Nel 1989 ha vinto un secondo Pulitzer, questa volta per la sua raccolta New and Collected Poems. Nel 2006 Wilbur ha vinto il Ruth Lilly Poetry Prize.