
I TAROCCHI DELL’ANONIMO INCOSCIENTE
(Madrid, 1997)
Prologo
L’origine dei Tarocchi, come l’origine dell’Alchimia, è incerta. Le diverse ipotesi si dirigono verso un’origine cinese, araba o egizia. Tutto sembra indicare i navigatori italiani come i divulgatori del sistema e i suoi introduttori in Europa. L’ipotesi più plausibile è quella dell’origine cinese, che è quella che concepì Roger Tilley, secondo cui queste carte furono confezionate su incarico di Huei-Tsoong, imperatore della Cina, per divertire l’ozio delle sue numerose donne, nell’anno 1120. Questo spiega come, essendone introduttori in Europa i navigatori genovesi, il gioco si distribuì dapprima attraverso l’Italia, come è confermato dal fatto che i viaggiatori francesi informavano che i bambini italiani venivano istruiti nella conoscenza delle virtù con delle lamine che denominavano “carticelle”. Tutto sembra indicare che l’origine delle carte è lo stesso, cioè cinese, poiché nel 1329 il vescovo di Würzburg firma un divieto condannando allo stesso tempo delle carte e figure, anche gli scacchi e il gioco della dama: ed è risaputo che gli scacchi hanno un’origine cinese. Ciò nonostante, l’etimologia della parola spagnola “naipes” (carte da gioco), che sembra provenire dall’arabo “naibs”, fa pensare che forse i giochi di carte, come pure l’Alchimia, abbiano un’origine araba o sufi. E ancora, questo suggerisce che l’origine delle carte da gioco si trova proprio nei Tarocchi, e che questa origine può essere cinese, araba o indù (in ogni caso non occidentale), e insieme cortigiana –essendo il bastone una indicazione dello scettro, e le coppe e le spade sembrano far riferimento al dio ibrido Ardhanari, la cui metà sinistra è Shiva e la destra la Shakti Devi, e la metà Shiva sostiene una coppa e l’altra metà una spada. Detto questo, se l’origine dei Tarocchi è indù, come lascia supporre ciò di cui abbiamo appena parlato, questo metterebbe in relazione le carte dei Tarocchi con i gitani, la cui origine è probabilmente indù. In ogni caso, queste carte hanno un senso, e questo senso è iniziatico, come scoprì Curt de Gébelin nella sua monumentale opera “Le mond primitif”, dove appare la prima descrizione scritta del gioco dei Tarocchi. Posteriormente a Gébelin fu il ciarlatano Etteilla che confermò le tesi del primo proclamando i Tarocchi come il “libro” più antico del mondo, opera personale di Hermes Thot, nella remota infanzia dell’umanità. Si arrischiò a un ulteriore passo Christian (“Histoire de la Magie”, 1854), che concepiva i Tarocchi come una traccia dell’iniziazione nel Tempio di Menfi, attribuiva cioè ai Tarocchi un’origine egizia, e questo ci rimanda di nuovo ai gitani, chiamati anche egizi, come loro divulgatori. Come afferma Alberto Cousté –il cui libro “I Tarocchi o la Macchina per immaginare” è uno dei pochi libri scientifici sul tema, e dal cui magistrale studio abbiamo ricavato i precedenti dati-, questo compendio di conoscenze supreme avrebbe avuto origine nella gnosi di Alessandria, e dopo il disastro faraonico sarebbe passato ai pitagorici, e in seguito agli alchimisti. L’ipotesi dell’origine gnostica dei Tarocchi è anche quella di Stephen Runciman nel suo libro “Gli eretici manichei del Medioevo”. In ogni caso, l’origine dei Tarocchi è tanto oscura quanto la costruzione delle piramidi, il cui segreto bisogna cercare più che negli schiavi e nella frusta, come ci fece credere Cecile B. de Mille, nella conoscenza della struttura della materia –il cui remoto segreto è alla base degli ufo, lo stesso che nella struttura dei dolmen, che non sono soltanto monumenti funerari, bensì indicatori termici-, in un’umanità che non fu tanto primitiva, come dimostra Erich von Daniken nel suo libro “Ritorno alle stelle”, e come è provato anche dal fatto che le culture egizia o cinese sono più sagge della cultura occidentale, essendo anteriori ad essa, e possiedono maggiori conoscenze sulla struttura della materia e sull’universo, che è un universo totemico –e non un universo astratto-, un universo soggettivo. Ciò spiega come l’animismo primitivo sappia dell’essenza più che Platone, anche se in difesa di quest’ultimo bisogna dire che per lui la chiave della conoscenza sono le idee dimenticate; idee che per Jung sono gli archetipi e per Freud l’animalità dell’inconscio, su cui si fonda per quest’ultimo l’origine scientifica degli archetipi junghiani, cioè nella per nulla probabile trasmissione genetica degli archetipi. Ciò nonostante, per Jung, il mistero dello sguardo, o di ciò che Lacan chiamò “petit A o oggetto A minuscola”, che è la chiave dei nostri poveri, umili e denigrati Tarocchi, lo stesso che con i piccoli animali con cui giocano i bambini, e nei racconti e leggende di chi si identificano con essi; in tutto ciò c’è, come dicevamo, quello che Freud chiamava “il ritorno infantile al Totemismo”, il segreto perduto della specie. Lo stesso nello zigurat, nella pitamide egizia o azteca, così come nel simbolo iniziatico della montagna, la metafora della relazione dell’uomo con Dio, o, che è lo stesso, con il cielo, con gli dei arconti –etimologicamente “esseri del principio”, in greco-, che sono anche gli animali totemici, con i quali il bambino gioca senza sapere, e che sono a loro volta la radice etimologica della parola zodiaco, che in greco significa “animali”. E questo perché non solo la razza umana può aver raggiunto l’intelligenza o la luce nell’universo, ma anche le anatre, le scimmie e i dinosauri possono aver raggiunto la luce in altri pianeti, come affermò per primo Harold Shapley, direttore dell’osservatorio di Monte Palomar, nel suo libro “Stelle e uomini”, dove luminosamente si cita una poesia di Yeats, intitolata “L’indiano parla di Dio”, in cui si dice: “Il verme credeva che Dio fosse un verme, il mangiatore eterno, l’eterno divoratore, la scimmia credeva che Dio fosse una scimmia, l’imitatore eterno, l’eterno ridente, e l’uomo credeva che Dio fosse un uomo”. Ma l’uomo è proprio ciò che non è Dio, in quanto ha dimenticato il significante, cioè il logos. Tuttavia, c’è un motivo per cui si scrive con la mano destra in ricordo del logos, perché le stelle fisse si muovono verso la destra e l’universo materiale si generò, secondo la fisica attuale, da un’esplosione delle stelle fisse, ciò che il sacerdote Lemetre chiamò l’atomo primitivo. Questo fuoco eracliteo è anche l’antimateria, segno della compresenza di due universi, lo stesso che l’anello di Möbius, dove è uguale il diritto e il rovescio, e che viene rappresentato da un otto, che è il disegno del cappello del mago nei Tarocchi di Marsiglia. Questi due universi sono un universo antimateriale e un universo materiale, compresenti dissimmetricamente, come rende possibile credere la geometria non euclidea di Farkas Bolyai, Lobachewsky e Taurinus, che è la scienza dell’altro spazio, fuoco allo stato puro, energia allo stato puro, e che è uno spazio soggettivo che non è nessuno e che quindi è Dio. Anche per Einstein, il limite di questo universo era la luce, e l’universo materiale era limitato e curvo. Detto questo, l’innominabile è anche l’architetto, ed è per questo che non brilla di notte, come dissero o pensarono gli ignoranti, in quanto distruggerebbe questo universo. Così, come disse Giordano Bruno: “Gli dei in questo universo sono materiali, in quanto l’universo materiale non sopporterebbe lo splendore dell’immateriale”. Così, si è soliti rappresentare Dio con l’occhio che tutto vede dei massoni, ed è perciò quello la cui chiave è lo sguardo, o che è lo stesso l’anima, non per nulla Freud affermò nel suo “Traumdeutung” che l’apparato psichico è un apparato ottico, e ciò unisce i Tarocchi e il Roschach, essendo entrambi come un testo ottico, o, che è lo stesso, dell’anima, che è la chiave della memoria biologica, in cui gli archetipi si trasmettono attraverso sensazioni o figure, e così nelle allucinazioni c’è la chiave perduta dell’uomo e di Dio, di questo significante che torna in ciò che Laing chiamava Età Oscura, per forza catastroficamente, non essendoci in questa codice per l’anima o, che è lo stesso, religione: “ Oh Egitto, Egitto, che si è fatto della tua scienza religiosa; presto di questa scienza non rimarranno che favole, e arriverà il momento in cui non si crederà nemmeno a queste favole”. Allora, non è strano che in questa Età Oscura sia la psichiatria l’unico codice della luce, o, che è lo stesso, dell’anima, o del senso, e che questa psichiatria abbia per codice il rifiuto o la repressione di queste conoscenze iniziatiche, che sono dappertutto, in Egitto, in China, in Israele o ad Alessandria, in quanto sono la memoria perduta della specie umana, la cui repressione è solo occidentale: non esistono psichiatri cinesi né psichiatri balinesi, e la parola psichiatra non esiste in swahili, perché la luce solo si è persa in Occidente. È per questo che lo psichiatra, come l’antropologo, sono matrici dello stesso razzismo, che situa un misterioso altro uomo fuori dal concetto. Ciò che non si può concepire, e nemmeno immaginare, è anche ciò che non si può spiegare, ed è questo “a priori” ciò che fa della follia un mistero per la psichiatria, allo stesso modo che per l’antropologia il primitivo è un cogito senza coscienza, o, che è lo stesso, un errore assoluto; ecco, quello che Lacan chiama forclusione, una esclusione definitiva dal campo del linguaggio, o, che è lo stesso, del logos, il che spiega la crudeltà col cosiddetto folle, in quanto lo si suppone contrario al logos. Il folle contiene anche il logos, negativamente, ma lo contiene, altrimenti non potrebbe essergli contrario, o, che è lo stesso, stare in relazione con esso. Questo è il punto di partenza di una nuova Aufhebung, che inaugura una nuova psichiatria, o ciò che essa etimologicamente è, medicina del respiro, o dell’anima, o, che è lo stesso, grammatica dello sguardo o della comunicazione, che per Bataille era la morte dell’essere separato, e, quindi, la considerazione del folle come simile. Soltanto partendo da quest’idea si può parlare di lui, perché si suppone che il linguaggio sia universale, cioè, Eros o amore, o. che è lo stesso, ri-unione o ri-unità dell’essere, che questo dovrebbe essere la scrittura, ritorno a incontrare sulla pelle, che è il continuum. Come disse Bataille nella sua “Teoria della religione”, il continuum ci fa temere e odiare Dio, lo stesso che odiare l’animale, in quanto in questo continuum un animale mastica un altro animale senza limite, senza territorio; o, che è lo stesso, come disse Böhme, è l’Ungrund che ci fa temere la follia, come dovremmo temere Dio, la Manna o l’infinito, che non ha figura, e la cui significanza può essere, solo così, il cappello di Napoleone o il naso di Cleopatra, come Lacan chiamava l’Apocalisse, che per lui era la sovversione del soggetto o l’uomo in fine messo in questione. E questo si è detto per orinare infine sulla pagina, perché questa finora ignora la vita, che è l’universo, infine messo in questione, in questo bicchiere di Mosef Ben Gitakkilla, sul quale il suo discepolo versò vetriolo, e che gli fece dire: “Stai attento nel muovere quelle carte perché potresti distruggere l’universo”. E questo era il sogno di Pan, che era un sogno senza figura, chiave della sua “tenébreuse démence”, come disse Walter Otto nel suo libro “Dyonisos, son mithe et son culte”, dalla cui fonte cristallina nasce un nuovo messia, che è pure un eroe senza figura, eroe della catastrofe e della morte, che è l’Anticristo, genio del male, solo in quanto il male è una sovversione dell’ordine o il diavolo è la sovversione del logos, una sovversione per nulla monarchica, e nemmeno dualista, bensì partigiana di quella Aufhebung del bene e del male, che c’è in Nietzsche, la cui rivoluzione era vivere ciò che si pensa e pensare ciò che si vive, essendo così questa “reductio ad hominem” ciò che ci porta a presentare il super-uomo.
***
IL FOLLE
carta 0
Lo stupore di essere uno
giace impiccato a una rosa
nell’oscurità degli occhi
vi è la caccia del cervo.
IL MAGO O L’AUTOCOSCIENZA
carta I
La rosa che scorge se stessa
mette sulla tavola il coltello
dall’oscurità della tavola
viene il sangue del cervo.
LA SACERDOTESSA
carta II
Un caprone giace ai miei piedi
per l’inganno della donna bianca
così sono donna, sono una dama
e dentro porto una rosa.
L’IMPERATRICE
carta III
Mi sono trasformato in una donna
e sono una rosa bianca:
Eliogabalo piange ai miei piedi.
L’IMPERATORE TATE UT POTES
carta IV
Nel silenzio brilla il mio petto
come una rosa segreta,
il mio cadavere attira le mosche
e i miei occhi le aquile.
IL PONTEFICE
LE PAPE
carta V
So tutto sulla Rosa
e sull’abisso che i miei piedi insultano
porto una piaga in petto
che è il segreto della mia vita.
GLI INNAMORATI
carta VI
Le mie due mani ben unite
indicano il cammino:
una al mare e l’altra al vino
che nel mio cazzo io indovino.
IL CARRO DI ERMES
carta VII
Oggi il mio corpo è un cavallo
alato che prega il diavolo.
Solo il mio corpo conosce
la chiave di questo, il mio fato.
LA GIUSTIZIA
carta VIII
Il sussurro delle anziane
è una spina in un fiume.
Ai piedi dell’albero, il mio fato
è una corona in fiamme.
L’EREMITA
carta IX
Solo alla luce sono unito
attraverso la catacomba
senza nulla tranne i miei occhi.
LA RUOTA DELLA FORTUNA
LA ROUE DE LA FORTUNE
carta X
Il nulla viene dall’altro,
il disastro dalla mia spada.
Il respiro ammala
e un angelo
riporta alla masnada.
La tromba è al fronte
l’albero nello sguardo
quel che non si dice canta
l’atroce canzone del nulla.
IL DOMINIO DELLA FORZA
carta XI
Vincitore sono delle aquile,
arciere del branco.
Ai miei piedi la grande follia
disegna sul mio piede l’ombra
di una balena incendiata
che sulla riva vomita Giona.
L’APPESO
carta XII
Sia maledetto chi mi ferisce
Nemo me impune lacessit,
legato alla tua stessa rosa
morirai come l’insetto
tra le braccia della luce.
LA MORTE
carta XIII
Dal suolo sorgono spade
e un elmo trionfa sul nulla.
Lo scudo del mio spirito
è un fiore legato a se stesso
e così non muore l’ombra
ma in ombra si trasforma.
LA TEMPERANZA
carta XIV
Bevi, Bocángel lo disse
la sete in bicchiere che non beve
bevi la sete nel tuo stesso sguardo
fai luce nell’ombra e bevi
del corpo la pura spada.
IL DIAVOLO
carta XV
Iniziato: La morte non esiste
a qualcuno Pessoa disse:
la testa del diavolo
giace legata ai miei denti.
La luce è peggiore della morte
se non ubbidisci alla mia spada
io stesso sono il diavolo,
il vedovo, il tenebroso, il desolato,
io come lui, sono l’infelice:
che muoia il fiore
e non il mio fato:
io sono la chiava in ombra
della morte.
LA TORRE O LA DISTRUZIONE
carta XVI
La parola di menzogna è simbolo
il canto conduce al nulla
il canto ormai senza null’altro
che una torre desolata.
Tutto l’orgoglio si fa fumo nella notte
ai piedi del branco.
LA STELLA DEI MAGI
carta XVII
La luce dell’albero più puro
è il trionfo del nulla
seguendo il tremore delle labbra
ritroviamo la desolata.
LA LUNA
carta XVIII
Che la notte non bruci la cenere,
albero bianco del mio ano.
Il deserto attraversa con una luce
sola nella mano.
A volte l’illusione è una mano,
altre, la luce che sbagliano i denti.
IL SOLE
carta XIX
Il nulla al nulla chiama
due uomini si baciano ansimando
lo sguardo è un inganno
se non conduce al nulla.
IL GIUDIZIO
carta XX
Se nello specchio mi guardo
scopro un altro essere bianco.
L’uomo assiste infine all’incantesimo
perché se l’essere ha dimenticato
l’essere di lui non si dimentica.
IL MONDO
carta XXI
Gli astri muoiono invano
se l’uomo non li invoca:
una crosce mi nasce in bocca
per vendicare bene il Re
a questo re della turba stanca
che è il Tarocco nella mia bocca.
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versioni italiane di Antonio Bux