
LA DISPONIBILITÀ DELLA NOSTRA CARNE:
OVVERO LA TRASFORMAZIONE DELLA CARNE IN VITA
Conosco da tempo la scrittura di Laura Liberale, donna e femmina al tempo stesso, così come consapevole e libera; e la sua scittura non può che esserle simile, diventando al tempo stesso strumento e dunque disciplina, ma anche fermento e perciò bilico. Ma dove finisce il bilico, e dunque lo smottamento, nella scrittura di questa sua nuova prova poetica (La disponibilità della nostra carne, Edizioni Oèdipus 2017), e dove inizia la disciplina? Senz’altro, in primo luogo, la disciplina è in questo perenne sottrarsi della parola, in questo suo scavo in cerca di un’origine (che qui non è tanto nostos, ossia ritorno, ma più partenza, fase iniziatica). Ed è nell’iniziazione (ed i suoi studi vedici e orientali qui si accentuano terribilmente, in questo suo personale richiamo al libro dei morti) che dunque trova origine la scrittura di Laura Liberale, che anche nelle prove precedenti (penso a Sari o a Ballabile terreo, entrambe pubblicate dalle edizioni d’If), aveva mostrato questi connotati, evidenziandoli attraverso i rapporti familiari (e dunque speculari), turbati dalle conseguenze della vita (ed ecco il “contemporaneo”). In questa nuova silloge però il cambiamento, o il rinnovo, mi pare essere appunto in questa chirurgia dell’estetica, che la poetessa applica con apparente “senescenza”, propria dell’evoluzione di un’età più matura e più scarnita, sebbene consapevole; apparente perché sembra invece che le poesie procedano più per torsioni, slegamenti, collisioni pensative che si scontrano con l’esperire di certi apprendimenti. Perciò la scrittura, pur essendo vasta nel suo significare, procede per rarefazioni (anche se per l’appunto disciplinate). E le rarefazioni sono una fase necessariamente evolutiva, specie quando “incarnate” in una coscienza superiore (che diventa poesia). Una commistione tra polarità “fredda” e “calda”, che produce una notevole scansione tra ritmo e stasi, tra immagine e pensiero. E se questo equilibro formale connota tutta la raccolta, la risposta alla tematica centrale, che dà il titolo al libro, ossia questa “disponibilità della nostra carne”, quale sarebbe? La risposta sembra essere una: ovvero che la disponibilità della nostra carne non si esaurisce in vita, perciò la nostra carne non è la materia, piuttosto l’esperienza di questa materia, la sua disciplina pensante, la sua disponibilità a “lasciarsi andare”, e ad andare e venire, a tornare per trasferirsi. Perciò la disponibilità della nostra carne è la trasformazione della carne in vita (eterna). Ed è questo che ci mostra, in definitiva, Laura Liberale, e lo fa attraverso i suoi versi:
Quando ti attornieranno i vivi
chiedendoti: Mi riconosci?
non sentirai che la membrana
di due bocche a sfiorarti
il pochissimo dei pugni nelle orbite
a strappare lo sguardo che negasti.
Vedranno sé stessi una volta sola
attraverso i tuoi occhi liminari:
Non ci riconosciamo, ti diranno
non crescono specchi nel nostro prato.
I parenti circondano il moribondo e dicono: “Mi riconosci? Mi riconosci?”.
Chāndogya-upaniṣad, VI, 15, 1
Antonio Bux
***
Hai tagliato i capelli
rinunciato a blandire l’aria
con le volute bionde della testa.
Ti sei capovolta in crescita inferiore
sotterranea.
Dalla pianta dei piedi i bulbi gettano.
Radici che si allungano a succhiare
la durevole cheratina dei morti.
***
Fruttifica in melagrame che lo piegano
che slogano il suo passo
e da mille feritoie fugge il fiato.
È un salto dal dirupo ogni risveglio
avvinghiato a sé come a un nemico.
***
E dunque lei muore.
Un altro mistero s’ingrotta
di donna consanguinea
di stele che non aprì alfabeti.
Finisce in piaga la carne:
la consunzione come punta
di un iceberg familiare.
***
Ma quello che era un altro ed era noi
sbarrò le nove porte alla parola io
si liberò dall’attesa del nome
fermò la ruota.
Le serpi che gettammo sul suo sonno
trovarono una stanza vuota, disabitata.
Nella città dalle nove porte, nel corpo, v’è lo haṃsa, lo spirito, il signore
del mondo intero, di ciò che è immobile e di ciò che si muove.
Śvetāśvatara-upaniṣad, III, 18
***
È ritornato il grande morto
per riportarti ai morti piccoli
per darti infine casa.
Gli duole il petto a camminare
e la Gran Madre è un tempio
che non riconosci:
finestre di alghe e muschi
una cova d’acqua.
Il cuore che gli tocchi
si rivela un grumo di foglie marce.