CAPITOLO ZERO
Attilio teneva strette tra le sue mani tuberose le mani di lei, le piccole mani piene di dita di Laila, quelle manine rosa colme di vite formicolanti, che Laila non teneva mai ferme, nemmeno mentre Attilio le leggeva la poesia di un vecchio poeta – un certo Antonio Di Vetro – una poesia così vecchia e scritta su un libro che ormai era quasi andato e si reggeva grazie a del filo di nylon, che Attilio gli aveva adoprato per tenerlo ancora in vita. E la vecchia poesia era iniziata e Attilio sussurrava opaco all’orecchio di Laila quel primo verso: La notte è di chi sa sognare. Ma Laila interruppe con uno schizzo di voce il resto del sogno: “Papà, ma io e te sappiamo sognare?” E Attilio: “Ma Laila, amore, io e te stiamo sognando”. Ma la piccola laboriosa, bionda come il sogno del mare, e rosea come la speranza di un fiore, insistette: “Ma papino, io e te non stiamo sognando, non vedo tutto nero e blu, non è ancora notte, guarda fuori, ci sono gli occhi di tutte le stelle!”. Allora Attilio la prese in braccio, la fece roteare danzando dalla poltrona fino al caminetto, e rotearono ancora, e danzarono nell’abisso di qualche altro secondo, fino a che non giunsero alla stretta finestra del cucinino, dove guardarono oltre, oltre quell’inferriata che li separava dall’aria della vita, e così Attilio avvicinò di schianto la bambina alla vetrata, e disse: “Lo vedi, amore, che fuori è tutto un sogno?”. La bambina sorrise, come avesse imparato qualcosa, come avesse letto tutta una poesia di corsa. E poi disse: “Sì, babbo, fuori le stelle sono chiare, e la notte le fa sognare di noi! Sai babbo, la notte è proprio speciale, vorrei non finesse mai… Ma ora basta, voglio tornare a leggere la poesia!”. “Ma la poesia è finita, Laila, ora dobbiamo svegliarci.” Allora Laila si svegliò, stretta sul divano e avvolta negli occhi del padre, che ancora dormiva, come un barbone, attaccato al freddo dei ricordi. Laila lo guardò per svegliarlo, lo guardò e gli sorrise dolcemente, come un sussurro di abete. Attilio svegliandosi vide il volto di Laila espandersi in un sorriso di onde, sembrava un luccichio di secoli, così la vide crescere in un istante, diventare una torre d’avorio, una donna bianca e alta, e bellissima; ma di colpo richiuse gli occhi, per tornare ad aprirli dopo qualche secondo: vide allora Laila ancora bambina, dormire, e forse sognare la propria vita, e le vene azzurre che in lei sarebbero rifluite, un domani, e che l’avrebbero spinta nell’oceano dell’esperienza. E Attilio si quietò, aveva ancora sonno, ma fuori era già notte, e le stelle gli pregarono di uscire. Era da poco passata la mezzanotte, e Attilio, di solito, dopo aver messo a letto la piccola Laila, era avvezzo in quell’ora di uscire fuori al giardino per fumare una mezza sigaretta, o per spaccare qualche pezzo di legna per il loro camino. Ma quel giorno Laila si addormentava e svegliava, aveva il sonno di una pulce, ed era ancora nervosamente vogliosa di suoni, e di giochi, e dunque non poteva lasciarla da sola, c’era troppo silenzio nel sogno, il salone era troppo avvolto di nebbia e di vita, e la vita non sa essere vita senza silenzio, e il silenzio è solo una nebbia più dolce, dove perdersi accesi. Così aspetto il risveglio di Laila, che quando fu sveglia sorrise al padre, come se non l’avesse mai visto prima, come se l’avesse perduto in un sogno precedente. Laila imparava così a sognare, col padre, e con le piccole poesie che ogni notte lui le leggeva. Laila imparava e sorrideva, era una bambina sorridente, Laila, capiva cosa era la vita, sapeva cosa poteva diventare. Sapeva che la vita, come la poesia, è un’organizzazione azzurra, fatta di elementi magici. Una specie di tappo per arrivare all’oceano. Laila lo sapeva: la poesia era come un sorriso perso dentro il buio. Laila queste cose le aveva imparate da sola; era una bambina che imparava le cose sorridendo. Attilio invece era solito imparare sui libri, l’asciuttezza e l’ondosità al tempo stesso del proprio pensiero, che era un po’ come lui, magro e barbuto, con occhiali sottili e lucidi, e dietro quegli occhiali di tempo i suoi occhi bruciavano come due stoppie bambine, i suoi occhi di amore per Laila, quei cerchietti quieti e vispi erano il suo unico fuoco la sera, la sua ultima speranza di tornare a sognare. Ma Attilio la notte doveva uscire, andare a procurare ancora legna, ancora sogni e poesie alla piccola Laila. Lui viveva così: fabbricava idee per alimentare la speranza della bambina, per far sì che crescesse e sognasse, e sognasse che crescere non era morire. Ma da poco Laila si era di nuovo svegliata: fuori alla loro casa era un cielo pensante, che cadeva a capofitto su quei corpi ancora cancellati dalla sera e dal presente. E Laila voleva leggere ancora, allora chiese al padre di riprendere quella poesia di quel vecchio poeta. Attilio si scompose, e rimbalzò sul divano, fece un cenno d’intesa alla cucciola, ma le disse: vuoi prima un bacio o il secondo verso?”. La bambina sorrise di un sorriso prenatale, come non fosse mai esistita. Fu così che Attilio la baciò saldamente sulla fronte e la riscaldò con un “Torno presto, tu resta ancora a sognare”, e così fece avviandosi verso il proprio giubbotto. Quando fu vestito e sull’uscio, strinse il pomello ma il pomello andava a vuoto, come non ci fosse nessuno ad aprire. Era stanco, si accorse di aver dimenticato gli occhiali sul tavolo che era di fronte al camino, perciò pensò di non avere afferrato la maniglia. Tornò indietro fino al tavolo per recuperare la miglior vista, ma sul tavolo non c’era niente, a parte il libro di poesie del vecchio Antonio Di Vetro. Allora Attilio si voltò verso Laila, che dormiva come sospesa, come fosse un’equilibrista supina; vide la bambina che indossava i suoi occhiali, sembrava un’adulta smarrita, ma tutto questo suonò strano ad Attilio, dato che un attimo prima la bimba era sveglia e gli occhiali come impietriti giacevano sul tavolo. Ma Attilio smise di pensare, lasciò la piccola con gli occhiali a protezione, non sapeva nemmeno lui da cosa. Poi si guardò intorno: l’aria imbalsamata era la stessa colla resinosa di sempre; i quadri del nonno ancora appesi alle pareti, c’erano tutti; il ritratto del fabbro, la casa cantoniera col ruscelletto, il frutteto vuoto, e la messa senza pane e senza pesci. Il cammino era quasi morto nel suo poco calore, il salone stava tornando freddo. Aveva bisogno di legna per la piccola Laila. Si ricompose e fu pronto ad andare, ma quando tornò sulla porta, questa era già leggermente aperta. Notò una piccola crepa sotto il pomello, all’altezza della serratura. Era sicuro che prima non ci fosse, era sicurissimo che qualche ora prima fosse tutto sano e a posto. Fu così che rinunciò ad uscire e richiuse la porta, per correre giù in dispensa in cerca del suo rhum preferito e del suo fucile. Guardò Laila ancora una volta, con gli occhiali rigonfi di sonno; sorrideva, la piccola, anche tra i turbini di Orfeo non poteva che essere bimba. Attilio era già sulla scala interna che dava al piano di sotto, dov’era il piccolo magazzino, custode di ferri e di conserve alimentari, e soprattutto covo appartato dei suoi distillati preferiti e della carabina vecchia amica maledetta. Fece un sorso d’aria e si precipitò verso la porta che dava sulle scale. Ma facendo come per aprirla, si accorse che anche qui il pomello andava a vuoto. “Oggi non mi sento tanto bene”, disse, sgranando gli occhi anacleti e stropicciandosi ossuto la barba. Riprovò a girare, ma niente, la mano andava in bianco come solo può andare incontro a una canzone. Attilio cercò allora una ragione a tutto questo mancare, e pensò di aver bevuto già, e di non ricordarlo. Eppure era stato tutto il tempo con Laila, no, non poteva essere. Provò ancora ad afferrare la maniglia, ma niente. Un brivido come un fantasma gli attraversò tutta la fronte. Iniziò a sudare, ad avere precise visioni. E si vide scendere giù in cantina, prendere il fucile e spararsi un colpo in faccia, e vide il corpo di lei sulle scale, vide così tanto che cadde come svenendo. Rialzandosi immediatamente e paonazzo, penso tra sé e sé. “Ci siamo solo noi, qui e siamo vivi. È solo un brutto sogno. Meglio che torni a dormire, scalderò io col mio corpo la piccola stanotte”. E così fece, tornando mesto e opaco verso il nido improvvisato da Laila la piccola sonnifera.