RECENSIONI – “Capelli struggenti” (Marco Saya Edizioni, Milano, 2017) di Franz Krauspenhaar

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LA PROVVISORIETÀ DELLA REDENZIONE
 
Sulla poesia di Franz Krauspenhaar
 
La poesia di Franz Krauspenhaar è figlia della roccia e dell’arancia. Perché dalla roccia trae sedimento, mentre dell’arancia offre la luce della sua polpa. Di lavoro di scavo, frutto di ogni poesia meritevole, dunque si tratta. Scavo che dalla superficie della prosa riporta alla luce i resti di un poeta moderno, tagliente, quotidiano, sì, ma soprattutto vivo. Perché Krauspenhaar ha nella sua lingua la necessità di sentirsi vivo, rispetto alla monotonia del quotidiano, questa sì in senso letterale, spesso accordata (o meglio, scordata, nella sua ambivalenza di senso) in un’unica sonorità d’assenza. Invece Franz, che da bravo scrittore qual è la sa lunga, si fa visitare dal lupo della scrittura in maniera autentica, senza però soccombere, anzi, riuscendo a sopravvivere nella giungla urbana e del testo letterario, presagendo però una sorta di sconfitta che forse non darà mai redenzione. E se nelle sue precedenti raccolte (“Biscotti selvaggi” e “Le belle stagioni”, entrambe edite ancora una volta da Marco Saya Edizioni, come a chiudere, con questa terza raccolta, una spece di disperata e straniante trilogia) la provvisorietà della redenzione era data in primis dalla lotta alla sopravvivenza, e in secondo luogo dal mascheramento, in “Capelli struggenti”, la redenzione minima si ha in quello scarto tra monotonia e infinito passionale, tra sentimento d’addio e parola di guerra. E Franz, con la sua scrittura vitale, spesso sarcastica e pungente, che ricorda la poesia di Victor Cavallo, continua, a prescindere dalla ridondanza vitale e mortale del precipizio, e scava, nella roccia e nell’arancia, ossia nella durezza e nella passione, rimpallando la sua veemenza tra prosa lirica e poesia prosastica; poichè compito dello scrittore è di testimoniare il proprio lavorio, la propria spariazione, con l’enfasi di chi sa essere divoratore di roccia o seduttore d’arancia, ma sopratutto di chi riesce a cesellare una vita che prima che tutto ritorni alle briciole.
 
 
Antonio Bux
 
 
seguono 10 poesie da “Capelli struggenti” (Marc Saya Edizioni, Milano, 2017)
 
 
Alla madre
 
Mamma io sono già morto
e vorrei approfondire il futuro
ma tu non esserne colpita
sono morto come un foglio
giallo, sotto una biro che non scrive.
Nel nostro profumo di vaniglia
le torte che hai fatto salutano
la nostra storia. Io sono già morto
con la musica troppo alta, l’ozio
delle domeniche e il vento che spira
dalla mia testa china. Non temere,
sono vivo ancora, se ti avvicini.
Se ti avvicini saremo sempre vivi,
il vento saremo noi, contro la musica
della nebbia, della pioggia, del sole.
E avvicinarsi ai confini, senza paura.
 
 
Tutto va perso
 
Tutto va perso, anche l’azzurro
salta e sparisce, il suono attutisce.
Lungo metri di perle siamo stesi
al sole femmineo, solforico.
Non ci sono regole d’oro, ma scuse
che ci piace sentire, ogni volta.
Non sono più capace di perdere,
devo vivere ogni minuto come
fosse il mio futuro in vent’anni,
come se avessi l’età di un auto
che sbalza sulle buche, e prende
ogni rampa frenando, e facendo
girare le ruote sull’asfalto bagnato
si circondasse di tutta la terra
che la pioggia, avida, può prendere.
 
 
Il suicidio
 
Il suicidio piace ai romanzieri,
alle nuvole, ai poeti sobri.
All’oblio, alle carezze abortive. Poi piace
ai disperati, e ai depressi. Il suicidio
salva gli insalvabili. Una scialuppa,
resa sul fondo. Io non voglio
parlare e pensare ogni morte, ho circa
tredici anni e mi tocco le pallette
quando vedo un morto chiuso nella
bara, dentro una macchina nera,
che va, e va. Io non ho ancora
capito la signora morte, né, tantomeno,
il suicidio. Il suicidio piace agli umoristi,
piace alla gente che piace, quando
tramonta il sole e la fortuna cambia
la sua stupida faccia.
 
 
L’angoscia
 
L’angoscia mi dà noia, preferisco
la disperazione. Non passa mai,
ma l’illusione è tenera, credi che no
e invece sì. Il rumore diventa flebile
come il fischio di un animale morto.
Io, tu, noi, voi.
Che c’è ora? I suoni galleggiano e la notte
cresce, divaga, si ficca in un portone
e muore. Nell’attesa mi sciolgo a letto,
come una pastiglia per la digestione,
fino alla sera, che nasce, unica, sul calcio
internazionale.
 
 
Thailandia adesso o mai più
 
Ti sei pianto negli occhi, hai
sentito meglio con le mani,
erano come gherigli di noce,
e il duro dava testimonianza
di tutto quel dolore passato
solo dal tempo, non dall’ignominia.
Come mangiatori di patate
eravamo chini alla finestra, a rendere
gli occhi al balletto delle auto, al suono
della fine della civiltà contemporanea.
Distaccato dalla retina, ho lanciato
l’occhio destro verso il pneumatico
di un tir olandese; invece di schiacciarsi,
il moto della gomma ha come sputato
l’occhio in aria, fino a raggiungermi.
Caduto ai miei piedi, l’occhio pareva
irrobustito, forte, ipervedente.
Lo incastrai nel cavo oculare e tu,
fratello Hans, mi chiedesti che avevo
fatto, con voce vivace, d’ acqua frizzante.
Risposi che avevo tentato di non vedere
più il mondo, che mi rendeva infelice;
ma quello era tornato, come un boomerang.
Questo, disse Hans, vuol dire che sei
condannato a vedere il mondo in ogni cosa.
Chiusi la finestra, il rumore incessante
dei camion Scania e Daf si assottigliò, e io
dissi a Hans: Thailandia, adesso o mai più,
te lo giuro, e che Dio ci aiuti. O l’elefante.
Sul dorso pieno della collina.
 
 
Nel sonno
 
Ho pianto nel sonno, ma il sonno lo nega, e io credo a lui.
È un problema, diciamo così, emozionale.
Ho visto un documentario su Rothko,
l’attore che lo impersonava fumava a catena
e sembrava infelice. Così le emozioni parevano
sul punto di rompersi. Le mie sono statiche.
Attendo mio fratello col cellulare in mano,
agognando notizie. Abbiamo fatto una spesa enorme
per mia madre, dopo aver venduto il garage a un cinese.
Piccoli uomini scuri giocano a scacchi nel parco
davanti al palazzo, prima del Lidl, farfugliando
lingue aliene, ormai vecchi, macilenti, alcolizzati.
Non è colpa loro, ma noi abbiamo il bisogno
di sparire. Mio fratello brandisce la bandiera
di due biglietti per Bangkok.
Fa caldo lì, mi dice.
Ci sentiremo a casa, riesco a dire.
Non so, forse poi svengo, forse no.
Forse è tutto un sogno disperato
che mi farà svegliare in un sudore
malato, di giungla radioattiva.
 
 
Dispera
 
L’amore è una cosa che mi dispera,
non lo spero da anni, ma lo stesso
a pensarci mi ferisco nel petto
come una donnetta scema. Allora,
a notte fonda preparo poche righe
nelle quali immagino un lui che
fa l’amore con lei, e lei ha i polsi
tagliati da poco, dai quali sgorga sangue
a rivoli compatti. Quel lui sarei io, e la lei
una donna mai esistita, la personificazione
della disperazione, della mia solitudine,
la carne brillante dello scempio.
 
 
La pastura del niente
 
Farsi le canne col sentimento
del ti voglio bene, la pastura
del niente. A noi rode e scuote la bile
del sentimentalismo inospitale.
Cerca il viaggio fondamentale,
spaziale, controverso. Non scrivere più
parole, ma colori. Ascolta la voce
del passato sotto le ruote di un camion
rotto. Cuoci le uova dentro canne di fucile
e sbatti i panni sulla faccia smunta del re
prima che si frigga il tempura, e uova affiorino
da un sogno, sulla tua morte per affogamento.
 
 
Un Vietnam della mente
 
È un Vietnam della mente, di rami secchi nel covo
del vecchio corpo, sono il depresso, ho il cuore
che piange, che depreca. E poi, quest’insalata
che ho mangiato stasera, è una cosa scorante.
Bastava un chiodo per stare al binario, un giorno;
ora fai la carità alla tua salute, e ti sembra di essere
nell’erba, morto. È finita ogni festa, e ogni suono
di chi ti pensava, che ti correva in soccorso; tutto
è nocumento, nella sera che si cancella con l’alito
degli ultimi fiori, delle ultime, ricordate carezze.
 
 
Libertà
 
 
(L-Libertà: il diritto di obbedire alla polizia.)
 
 
Bertrand Russell- L’alfabeto del buon cittadino
 
 
Liberi tutti, nel gioco senza senso. Un escamotage emotivo. Si
giocava a campana, si giocava alle olimpiadi. Bravo nel lancio del
giavellotto, un manico di scopa che lancio sul selciato del cortile
rimbalza, a una decina di metri da terra si piega e diventa una
specie di boomerang che non torna più indietro, che sale
sparendo nel cielo in pochi secondi, come fosse un’astronave. E
la libertà è svanita, e il tempo è passato. Forse questo non è un
sogno. In effetti non so stabilirlo: il mio è un dormiveglia
separato dal corpo. Giro la testa sul cuscino e attraverso gli
schermi labili presenti alla finestra dietro di me vedo la luce, la
stessa, di trentacinque anni fa. La luce non è proprio cambiata.
Chiudo gli occhi nel sogno, rientrato in me; e spalanco gli occhi,
ora, che sto di nuovo dormendo del tutto, nettamente. Liberi
tutti, nel gioco senza senso, si giocava a campana ma poi anche a
calcio, per ore e ore, fino allo sfinimento. E la piccola maratona
intorno ai caseggiati. Ora corro con me, accanto a me,
superandomi, facendomi superare: o trentacinque anni fa. È
caldo, ho ritrovato tutto il mio fiato, tutta l’energia fisica, mi
sembra di correre, ora, dopo un attraversamento di scenario
immediato, su una brughiera, nell’estremo nord, saltando sulle
scarpe speciali, leggerissime, morbidissime, saltando nella
brughiera color terra, contro un cielo celeste senza nuvole
atterrato dal Mare del Nord, che dista da qui pochi chilometri. La
libertà, liberi tutti, nel gioco senza senso. Spensierato come mai,
mi sveglio con il batticuore di chi sente che tutto è ancora da fare
anche se già tutto è passato.
franzseduto
Franz Krauspenhaar, milanese, classe 1960, e’ romanziere e poeta. Ha pubblicato finora dieci romanzi e cinque libri di poesia. Ricordiamo i romanzi Le cose come stanno (Baldini & Castoldi), Era mio padre (Fazi), Le monetine del Raphael (Gaffi), Un viaggio con Francis Bacon (Zona), Grandi momenti (Neo). In poesia, Effekappa (Zona), Biscotti selvaggi (Marco Saya) Le belle stagioni (Marco Saya) e adesso Capelli struggenti (Marco Saya). È stato redattore di alcuni blog letterari e della rivista letteraria cartacea Achab. Da qualche anno è attivo anche nel settore della musica elettronica e ambient.
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