ANTONIO BUX – dieci testi da “Storie dal diluvio” (in “Naturario”, Di Felice Edizioni)

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In “Naturario” (libro oceanico), c’è anche un mini ciclo di poesie “monolitiche”, composte da 24 compomimenti, intitolato “Storie dal diluvio”. Per il mio blog segnalo dieci di questi testi. Ricordo, per chi fosse interessato all’acquisto del libro, che lo stesso costa 15 euro (per 400 pagine), e lo si può acquistare su IBS oppure ordinare in libreria o semplicemente scrivendo all’editrice, tramite la mail posta anche sul sito, ovvero a info@edizionidifelice.it
 
Grazie! Bux 🙂
 
dieci testi da “Storie dal diluvio”
 
 
1.
 
Che colpa ne ho io se il sonno dei baci è arrivato
prima del parto e mi ha tagliato la testa. È stato
uno specchio a rivelare cigni feriti. La prima sera
invece bare sociali, tutte insinuatesi dopo. Ma io
non ho avuto tempo di crescere funghi. Non ho
avuto modo di sapere la vista se è un bosco o se solo
diviene fango avanzando. Non ho saputo creare dai
gatti calmi il reale desiderio del balzo. Non ho
potuto temere l’airone paterno o la serpe vicina, non
ho tradito gli amici zanzare. Ma il lago interno
è mutato lo stesso. E allora è bastato restare
sdraiati cervelli all’aria per sterilizzare ogni aurora
prima del vento. È bastato credere al vulcano spento
o alla cenere impazzita del corpo, che subito
la maggioranza ha eruttato bestemmie. Ed è servito
cadere ogni giorno, è servito succhiare la montagna
di Dio, e precipitarvi sotto, è servito sognare alberi
corti, è servito sapersi bonsai, dio quanto è servito
soffrire il verde completo, che ora è sera e nessuno
riesce a vederlo, che ora è per sempre notte sazia
di pipistrelli. Ma le stelle lo sanno, sono il citofono
e il cielo il palazzo, dove noi non entriamo.
Piuttosto stiamo a zerbino, nell’aria
impolverata, piuttosto spariamo ma l’alba ferisce
più forte. È un gioco meschino? Niente come
le carte che giriamo fa la truffa, niente fa l’uomo
come una mano al tavolo sparecchiato
 
 
2.
 
Io non so se l’avorio supererà il bianco clandestino
della mia vita notturna non so se sarà daltonico
il vino o se la fantastica selva fiorirà dappertutto. E
tu non sai chiaramente la lotteria del capitato o del
fecondo dove combacia, se nella steppa
del materiale o se nell’imbuto del giorno. Come
non sappiamo il quadro dell’occhio quanti soli
frammenta al minuto, o se diventa tenebra
incinta. Ma io sogno di esser vivo se tu sogni
di esser meno. E se tu sogni di esser meno io vivo
del tuo sogno. Ma se nel sogno io rifiuto
il manto caprino, un volto esagonale si dilata. E se
non sogno più diamanti è per colpa del mestiere
che frantuma ogni promessa. Se tu non sogni
delle case o se non entri nei fantasmi allora è vano
il mio distacco. E se mia madre è stata un sogno,
una cicogna nera ora vola sul mio braccio e sulla
pelle. E se tua madre non è stata in grado di sognare
a cosa serve la preghiera che cosa stringe nella
pietra se non fa male la tua mano. Se la tua mente
non esplode quale miccia si commuove quale
fiamma cade invano ma gentile, quale ragno tappa i
buchi quale fonte cede i segni, quale mare attraversa
dentro. Se nella mano si conclude il sogno di una
vita è per forza d’ogni bene è per vincere la fame
di un povero caduto. Ma tu non puoi risolvere i nodi
se sei nodo, non puoi la spada se sei scudo, non puoi
girare vuoto il tuo divieto
 
 
3.
 
Vorrei soffrire se le pene dell’inferno non fossero
l’inferno. Eppure è qui anche non volendo, è stato
come il male anche se non svuota il resto di noi, per
sempre vedi come cresce anche sparendo. Rimonta.
E se non vuoi lui ti sceglie, e se ti sceglie tu non
vedi. Ecco hai scelto la calma della morte, una
fotografia scattata presto. Ecco lui ha scelto
la balena del trasporto. Lui trasporta te alla
deriva. Né prima ti salverà la saggezza delle
tombe. Non ti salverà l’aver trattato alghe
coi pescatori ciechi, non ti salverà l’ira del diluvio
né la potente acqua già bevuta. Sarai mezzo mare
se ti calmi. Saprai più sonni, se ti svegli. O solo
sabbia sotto le bombe, o trota convertita alla sua
corrente. Ma se vivi del nero pretendi troppo, è un
colore che sbiadisce alla lontana. Non seppellisce
l’anima, la seppia nascosta. No, non riesce col sale
a sgranare le ferite. O le nostre lacrime piovute dal
giorno, al mattino quando vomitano i santi, le senti
anche tu, come puzzano di tempo? Perché le statue
tergiversano nel bianco, e non riducono l’anello
del demonio. Per sempre calcato, vissuto interno
ad ogni Carneade maschera l’uomo, cresce come
cimice di speranza. Com’è verde, com’è fetida
di erbe! Lì corrosa dalle voglie, scossa dalle tensioni
la balaustra del Cristo ancora ci costeggia. Livido
scalino! La zecca del martirio ingrossa ogni
tempesta. Ma non è boa a indicare, non la linea del
confine ciò che segna. Una volta aperto il pozzo
originale, una volta smessa tutta la cambusa, non
resta la tua ciurma a naufragarti. Ciò che salva è la
siluetta della barca
 
 
6.
 
Mare morto di energie mi trascina la tua risacca. Un
pendolo di gioventù bruciante, che si eclissa. Ma se
chiudi il frastuono della vita, cosa strabordi fino al
costato altrui? Le mani crollano invisibili se
costeggiano un solo muro. Non amare, questo
è saper perdere? Perché chi ama vive di polvere, ma
se non ama è di polvere. E se ama a metà, si fa
polvere mancata. Più spessore. Perché permettere
questo? Un povero dio impolverato ci illumina
di fasci. Strana sentenza essere tutti quella
sua luce. Preferiscono il buio i matti. Ciascuno
avvolto a un nero abbandonato. Quelli sì, amano il
vero. Anche la congiura. Come non crederli divini,
se sanguinano appena rivolgono lo sguardo in chi
si elimina. Ne incontro molti mentre chiudo a chiave
le stanze. Camminano stretti, come desideri. Non
hanno più ombre da smettere. Sapessi battezzare il
perdono come questi! Costruirei davvero un arancio
meccanico. Con una pezza di solitudine sempre
pronta a condividere l’elemosina del sangue. Ma
pregare l’albero finché torni radice vuota è come
credere l’uomo d’un verde impraticabile. Chissà
allora sia la melma terrestre il giusto sfogo. Un
bersaglio che mi centra se penso a quanto dista
ciascuno dal dirupo. Eppure certi pazzi li vedo
ridere sulla soglia. Come foglie di vento conoscono
l’aria a memoria. Pazzi che conducono la follia
del mondo, quante risate se dicessero la verità!
Io la tengo scritta su un fazzoletto di neve, la
chiuderò in un cassetto, poi dopo smetterò
di respirare. Una volta intascato l’uomo, l’esistenza
si svuoterà. Essendo sola, parlerà la distanza. Dove
nessuno più ascolta
 
 
7.
 
L’ho scoperto l’altro giorno. Sono un fiume che
piange se stesso. Ma quando le lacrime finiscono,
uno stagno è sempre l’altro. E dice troppo. Che non
si neghi il cielo a nessuno. Ognuno ha il suo dio, da
non condividere. Ma la ferita sì, è universale.
Chiedere perdono per la propria ferita, la sola
lima. Andare oltre questo specchio e non vedere
niente. Un Tamigi riarso. Le febbri cresciute poco i
volti impazziti per troppe occhiate. Chiedo scusa
ogni volta che scrivo. Saprai salvarmi? Ciascuno
salva un’isola. Temere gli occhi, la prima
sponda. Negarsi a parole, negare la parola. La parola
negata è la verità del dio. Ciò che manterrai segreto,
è per te stesso. Certi fanno poesia per non essere
soli. Ma se un poeta è da solo, cos’è che sta
mentendo? La poesia è una scatola di scatole. Il
poeta non lo sa, ma le apre. Ad un tratto ci rimane
male. La scatola è infinita perché chiude al naso
ogni scelta. Allora è rubare uno spiffero ciò che
accumula silenzio. Certi poeti costruiscono scatole
ma poi le smontano vivendo. Non reggono l’urto
di un nuovo vento. Né l’evento del furto. Perché
ognuno è rubando che alimenta il proprio vino. Che
vergogna essere la tomba dei morti! Lapide rozza
non ospitale, lavagna domestica insegnando
piattole. Dove lo sporco non delimita, un pulito
troppo opaco l’altare splendido. Ma chi prega al
banchetto dei vivi? Esseri invisibili calpestano,
quale fortuna! Meno male che il destino
ci cova. Viva i poeti sconsacrati!
 
 
8.
 
Ho scoperto Gotham City, e qualcuno verrà presto
a farmi fuori. Sarà dietro uno sguardo, un volto
più vivo o per colpa di un pompino gelato. Oppure
mi troveranno stecchito, autografato da altro nella
calligrafia dell’aurora. E finirà tutto così, in una pera
finta, succhiando le tenebre. E berrò dal mio calice
senza sangue, o disegnerò l’indelebile oscurando la
mela a metà del destino. Ma osserva doppiamente
la vita svanendo, e mentre mi continua, fa lo stesso.
L’ombra del gufo gli si nutre di fianco. Eppure è
stato, da dentro le acque, un suono onnivoro la sola
stanchezza. Ricordi, un vortice centrale propose
il salto. Ma tu non volevi saltare. L’acqua nutriente
ora ti caccia. Ora lontano, nella gradazione che non
corrisponde, la televisione pare un tonfo freddo,
come i piatti scrocchiando le mani e le facce
precipitare dentro i bicchieri. È solo un rumore
spaventoso la famiglia. Ma chi sei, a questo tavolo,
chi sono loro che ti guardano, sono io già morto
per vederlo? Potranno rispondere sai, siamo stati noi
a colpirti all’entrata. Dovevi saperlo, e restare nel
cavo, stretto al fragile dell’inizio. E invece con tutto
sei venuto al mondo, per tramandare olocausti. Ma
dicono che chi muore se ne va per somigliare. A
cosa, forse solo al pensiero di essere stato, fuori
di qui, o soltanto troppo dentro, qualche ricordo?
Somigliare è solamente sapere che qualcuno
da sempre scompone, ed è appartenenza. Così
l’origine non ha mai fine, se ricordata
nel dolore. Ma una volta scoperto, il troppo
dilata la conoscenza, restringe la mente
in fantasma. O solamente ti sbaglia
 
 
10.
 
Il cranio mi fa male, se vi poso la testa. Per questo
vuoto incendiare, ad ogni morte gira lento un carro
funebre. C’è un nido di sorprese nei volti
ammiccando il morto quando passa, quasi fosse
davvero andato a far festa. Ma in un suono di
farfalle si nasconde bene, e vola via col delirio della
chiesa in fiamme. È un tripudio bipolare la piazza
gremita di occhi. C’è chi spegne il suo lume
gridando che non vale, che non è così che si tirano
le cuoia in paese, che si muore una sola volta al
mese e nessuno sconto condominiale. Ma a questa
botta è saltato un palazzo intero, col doppio portone,
sei famiglie e due signore, vedove da un pezzo.
Fuga di gas i becchini han fatto un bel prezzo
di riguardo. Niente bare di legno, solo avorio
per decessi innaturali. Che fine di lusso, vallo a
sapere morirei anche io per questioni di cherosene.
E invece me ne sto solo col cranio in mano, nella
testa, e riposo. C’è chi pensa sia strano parlare a
ritroso e condurre il paesaggio, o salutare un
deserto. In questo caso, è un morto che parla,
quarantasette su scala connazionale del gioco. Ma
nessuno muore davvero, nella poesia mia nessuna
cosa succede. Sarebbe bello invece fiorisse una rosa
o qualcosa di simile, una prosa che finisse col morto
a sorridere. E invece sono solo io col mio reso, nel
mio vero indeciso, faccio noia del testo, spargo gioia
a pretesto. Sono serio, cerco solo un cimitero
 
 
11.
 
Hai camminato ora sei stanco di andare senza il tuo
branco contro ogni speranza. Ma l’osso ricresce
comunque, è un piatto troppo caldo messo a gelo
dall’esistere. E tu le vedi le tombe galattiche
dei popoli d’Abissinia, le vedi splendere nei vecchi
soli quelle polveri chiodate al marmo della terra
santa. E pretendi anche tu d’esser clone dell’ulivo,
figlio di bacca, vorresti così frantumare fra cento
legioni scomparse l’alloro della notte mai vissuta o
nel vento regalato la stele rapita. È l’alieno che ti ha
costruito, una baracca di stelle lontano dalla prima
liana, ciò che sapevi afferrare, ciò che vedevi sparire
nella carne col balzo furbo della scimmietta. E hai
imparato presto a rubare il felino così come a
sotterrare il manifesto terreno ai tuoi piedi fino
a farti generale gigante. Ma un esercito più grande
muove contro il tuo dito. Non puoi niente se non
connetti la mente alla memoria del fondo spaziale.
La chiave bionica, quella gira e non ti apre le porte,
solo annuncia il suo freddo lontano. La tua luce
migliore brucia gli ioni, esserino di nomi, pronuncia
il tuo silenzio come fosse vittoria! Il linguaggio
di Marte, la fossa lattea scavata, inverte la luna
collegando trasmissioni. Quanta umanità combatte
per restituir loro il balsamo d’oro. Chi siamo lo sai,
nel grano il messaggio dissimula la tua mente
contorta quel disegno. Un capostipite nascosto
in un cerchio d’uomo, il solo pegno restituito
alla promessa glaciale. Ma animali prima di te
han costruito nel globo, e nel centro di esso
qualche mostro governa. I tuoi raggi benefici
lì vanno, nel suono emancipato della loro scintilla
 
 
12.
 
Il vento sta cambiando! Mi remo contro e non riesco
più a smettere nel vedere l’opaco trasformarsi
in chimera. Ah che brutta cosa resiste
alla sfera la sensazione del giro! Non è un
rompicapo piuttosto un profondo più vero male
alla testa. Ustiona il pensiero la frase corrotta!
Correndo non si sa più che dire, ma per forza di rose
sopravvive la frequenza a noi morti! Manda e vive
segnali, un messaggio sovrumano come di Eta
Beta. E dice che c’era un forte vento attraversando
il vero, un cielo scoperto alle falde d’universo. Ma
chi vi ha messo su un tappo? Le cose splendenti han
lasciato le stelle, ora riposano sul guanciale sinistro
dell’eterno. Io canticchio dal centro del mondo.
E gli altri a destra, convertiti alla terra. Quante prese
di posizioni! Chi ha comprato costellazioni ora
giace sul fondo dell’inferno. Gabbati perfino dal
demonio, poveracci le fruste li domano. Signore
dai troppi anelli non perdona, il fulcro della vita
spesa in tramonti. Preferire una morte di santi è la
sfida di chi scalza il millennio. Non più sovrano a
condurre mansioni, non più mero programma
celeste. Solo angeli neri scampando infiniti. Ma il
vento sta cambiando! Sento che ritornano i leoni.
Sarà che il tempo è tutto tondo, scodella sempre
qualcosa contrario. Potrebbe sparire il Colosseo e
stare Napoleone la sera in televisione. Mia madre
lo potrebbe votare! Sì ma cadrebbe il governo? La
moneta dei popoli andrebbe in rialzo? Fottuto
Occidente non cambi sistema! Ah ah ah, sei
simpatico soggettone. Ma ora che il fuoco
comanda, nel cerchio d’oro l’illusione conficca
 
 
23.
 
È per un giorno di pietra che si fa sponda degli altri
passati a fango in cerca di perle. Ed è per un
conflitto di bisonti che si immola l’essenza dentro
l’uovo sapiente come a sembrare colombe le dita
sparate sul muro più umano. Ma con troppi occhi
complanari vivi nascosto nel gregge, dove dietro
tende speciali di nebbie covi impaurito il serpente
parole a sonagli. Ma è lo schiocco feroce della
lingua la via più lunga che sfronda la porta.
E se la porta ha una sola maniglia chi apre tre
finestre alla volta, se poi non sappiamo volare ma
soltanto percepire il flusso antenato, ovvero ciò
che è stato bandito e che ora è per sempre vuoto
trasmesso? Un lusso di Satana o la mano dell’uomo
spacca in quattro l’ellisse, dove l’angelo vende
aureole già storte? Non è semplice contare se
il gradino ogni giorno ricresce. E sembra essere
Babele il silenzio, e invece nell’urlo mattutino poi
nega l’esistere. Facci caso che se risorgi per dio dal
tuo occhio di cemento vedrai crollare colonne
d’Ercole. Facci caso che se vorrai potrai sciogliere
braccia e smuovere colline. Nel tuo programma
sociale una volta vi erano questi riti, ora fanno
cambio col tuo stress cibernetico. Ma le teste si
sciolgono, e il Cerbero della morte morde l’io.
Sopportato Caronte, resta il fiume del tuo non
ritorno. Risacca che conosci tra le fiamme dei tuoi
giorni passati a farfugliare mentre petali di anni
strappavano la clessidra. Ora sai che la terra non
promette, ora sai che mantiene solo promesse. Il tuo
voto di condanna, l’ultima tua scelta: se cadere
dentro il libro o se bruciare Sutter Cane
 
 

 
 
immagine: Peter Matyasi (quadro)
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