dieci poesie di Mario Benedetti Udine, 1955) tratte da “I secoli della primavera” (Sestante, 1992), “Una terra che non sembra vera” (Campanotto, 1997), “Il parco del Triglav” (Stampa, 1999), “Umana gloria” (Mondadori, 2004), “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008), e “Tersa morte” (Mondadori, 2013).
*
Guardo vicino all’acqua l’acqua.
Quando dici erba piango,
quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto
l’avere incominciato da piccoli
qui in questa terra, dici, questa nostra terra…
Slovenja
E’ venuto con i passi nell’erba,
è un vento che pensa e ha avuto un prato là
e scende, va così, e sale nella mummia del fieno il suo forcone.
Su, qui, Silvano Berra ricorda Franco che tagliava ieri i càrpini.
Io faccio fatica a dire chi sono perché non è più niente l’erba che capita.
Aspetto sul muro il muro per sedermi, di poter guardare qui davanti
il vento che è stato, i giorni che erano anche per me giornate di caldo.
La nonna malata, ma era sempre un po’ magra malata,
avvilita per le spese del funerale,
come fate, lo ripeteva alla mamma.
L’avevano portata con il carro all’ospedale e poi quando era venuta
tra quelle due finestre si era fermato.
Uno ubriaco l’aveva messa in spalla come un sacco, è morta così,
l’hanno messa in terra ma era morta.
Stava lì, nel suo vestito, con quello che si era visto sempre,
era buona, era una donna buona.
Piangi qua, borgo senza nessuno
carbone dei corpi e delle mucche
vestiti bruciati, visi neri
fumo delle carni e del fieno umido.
Marzo
Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.
Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti “guarda”
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico “guarda quante eriche”.
Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.
E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.
*
Mi sento nel giro che facevi a prendere la legna,
nel rumore del camion che va perché si possa entrare
in trattoria durante l’ora di pausa: nei pensieri
che accompagnano la terra da togliere nel cantiere.
Questo è lo sguardo che lo tiene, quando si va la sera,
e volendo ci si può chiedere com’è stata, che cosa, la giornata:
restare in una melodia o con un disegno più nervoso e impossibile.
Così mi penso nelle parole che risalgono il cortile,
dopo averti sentita nell’aria che ti affaticava: un po’ intorno
come una sera d’aria tra le pietre e sulla campagna.
Dove la neve è occuparsi di che cosa sono le erbe e i sassi,
rimanere sulle cose per un po’, nel bianco della neve:
con le piane che avevano il tuo sguardo grande,
tu che diventavi le giornate, lavoro e prati di un mondo.
I monti del Cantal
In fondo ai monti del Cantal, di sera,
guardiamo la casa più vecchia di Saint-Flour.
E’ stato un uomo a tenere la casa per noi.
A poco a poco ha comperato
le cose che sapeva di un tempo e di un altro. E adesso è così.
Siamo entrati l’indomani. In basso
c’era un po’ di archeologia del posto,
e poi del legno, pavimenti, armadi
dei contadini del Cantal.
Poi ho voluto comperare le fotografie di Jacques Dubois, Les Auvergnats.
La notte abbiamo dormito bene per l’aria fresca
che c’è sempre anche d’estate. E ho visto un carro con i buoi
che andava via per l’occidente:
solo hanno le musiche e sanno sognare con tanta forza i giorni
nell’Europa dell’Est, credo di averti detto.
Abbiamo mangiato tante cose delicate e cercato di ricordare il vino,
poi ti ho parlato, mi hai detto senza capire cosa,
la mattina quando ti sei svegliata
triste e come disperata per la mia vita.
Il parco del Triglav
Le gioie che sappiamo sono ferme lungo questo fiume
con gli abiti che si mettono sulle pietre
e si resta con l’acqua turchese in un giorno lontano.
Le scarpe vicine dedicano i piedi all’acqua e alla brezza,
e agli istanti per il velo da sposa e gli altri fiori minuti.
Qui noi pensiamo alla vita ancora, delicata come una veglia.
Il ponte di assi sospese va in un quadro di poche case.
Log, Log Pod Mangartom: le vecchie lastre
dei pavimenti dentro le porte, con le facciate
piene di fiori che le stringono a sé.
E da qualche parte, lungo il prato che si allarga nel pianoro
davanti alle creste verticali, ritorna un canto:
“Siamo stati una volta a guardare il mare, molto dentro di noi,
così il suo posto è tra le montagne”. E noi andiamo
con l’acqua che si guarda ogni volta che si pensa,
con il pensiero di una casa qui, il suono che ritorna
di una fisarmonica che non sembra vera.
Unico sogno
È tutto preparato. È stato detto tanto,
durante la settimana,
sulle cose da mangiare.
Ma uno dorme. Sul lungo tavolo,
uno è malato e dorme, invece di mangiare.
E si può andare dalla finestra,
dall’aria della finestra semiaperta fuori
sull’occhio che butta resina.
Sembra con due sogni.
In uno è un’altra la nostra vita, nell’altro
quattro dita col pollice a tenere
meccanicamente il ramo.
Prenderlo dalle ali, tenerlo
sull’asse e con un colpo tagliarlo.
Con i pezzi nel piatto e
il rosso sangue da intingolo,
va la brina dal cielo per tutto il prato,
nella sera buttata via dal Signore.
*
Non sento niente. Verrà il fegato con i suoi spilli,
o un polmone rauco, labbra addossate alla mandibola.
Ti ho baciata piano, dopo le donne.
Ti ho baciata piano, prima delle donne.
Sono stati porpora gli anni, e a nodi sullo sterno.
Si staccavano figure dal cervello, e un altro orrore.
E’ passata la vecchia di Trasaghis con le zolle bianche.
Non ho nulla, soltanto quello.
Nella grotta del bosco Làndri
La frana di braci si alza sulle foglie di acero
e in basso la grappa con il tabacco da fiuto,
i cartocci delle pannocchie per le sporte da fare:
notte fatta di attimi, pareti che si scuotono,
pensieri che si divincolano e si addormentano.
E torna la domanda. Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.
Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
la pura inconcepibile assenza, non distrarti.
*
Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
E’ avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
E’ una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.