da “Dioscuros” (1982). A cura di Antonio Bux
In tutta la parabola poetica di Leopoldo María Panero (Madrid 1948 – Las Palmas de Gran Canaria 2014) vi è un’influenza, o forse meglio dire un marcato approccio e riferimento, figlio di molti classici (come Catullo, o di alcuni epigrammi, ad esempio, dell’antologia Palatina), e l’inclusione di varie divinità (infernali o leggendarie) nella sua poesia sono il naturale rimando di questi intrecci ai classici greco/romani, ma è specialmente nella raccolta “Dioscuros” (1982), che appariranno, chiari, i riferimenti a quelle figure, come Dioniso, Cibele, Plutone, Giove, Ceres… Dioscuros è dunque forse il libro di Panero dalle tinte più classicheggianti, ed è forse da annoverare, tra tutte le sue pubblicazioni, come meteora a sé, più che discordante, direi forse più singolare, se pensiamo all’invocazione paneriana come ad una forma di preghiera o di riscatto dalla e per la possessione, come a farsi varco parallelo tra la vita e la morte, tra ciò che è meno/il bene, e ciò che è reale/il male, (perché, come dice lo stesso Panero, essere due è tutto), facendo di questo parallelismo la sua vera ossessione per quasi tutta la propria vicenda letteraria. In Dioscuros, come si potrà vedere, prenderanno vita nuovamente quelle figure già apparse e fatte proprie da Catullo, come Giovenzio, anche se una certa crudeltà di “maledetto”, che ha da sempre contornato l’aura di Panero, non smetterà di marcare anche queste sue splendide poesie (paura / d’incontrare un giorno, / dietro la neve, / pieno di terrore e di freddo / il mio ricordo). Per il mio blog, offro dunque un assaggio di questi “Dioscuri”, che vogliono essere soltanto una piccola introduzione, una meteora nella meteora, una breccia di luce, in quella che definirei “l’oscurità metaclassica” che è stata la grande epifania in vita (e in versi) di Leopoldo María Panero.
*
Me dijo un griego en Creta que cuando alguien se quita
la vida por su propia mano
Dionisos el oscuro canta, en su cueva canta
y el eco de Cibeles da sentido a su canto
porque ser dos es todo, como fue para Atthis.
A Creta un greco mi disse che quando qualcuno si toglie
la vita di suo pugno
Dioniso canta l’oscurità, nella sua grotta canta
e l’eco di Cibele dona senso al suo canto
perché essere due è tutto, come fu per Attide.
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Ríe ahora que puedes, Politano, mi amo,
siempre supe que al Hades por fin descendería
coreando de risas de vírgenes y efebos
ríe ahora Politano, más que nunca reíste
ahora que este ridículo soporte de mi alma
se deshace en el lecho como cuando cagabas
encima de mi rostro o cuando con el chorro
ferviente de tu falo aún velabas
el dolor de mis ojos mejor que una oración:
mañana en la taberna no seré más que un nombre
mi imagen y mi cuerpo, y todas mis acciones
y mi esposa y mi tumba, alimento del vino.
Ridi ora che puoi, Politano, mio signore,
da sempre so che sarei disceso infine nell’Ade
in un coro di risa di vergini e di efebi
ridi ora Politano, ridi come non mai
ora che questo ridicolo sostegno della mia anima
si disfa nel letto come quando cacavi
sopra il mio volto o come quando con lo schizzo
fervido del tuo fallo ancora coprivi
il dolore dei miei occhi meglio di un’orazione:
domani nella taverna sarò soltanto un nome
la mia immagine e il mio corpo, e tutte le mie azioni
e la mia sposa e la mia tomba, alimento del vino.
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Miedo a las golondrinas en la noche
y de los pájaros que el aire deshace,
miedo
a encontrar un día, tras de la nieve, lleno
de miedo y frío
mi recuerdo.
Paura delle rondini nella notte
e degli uccelli che l’aria disfa,
paura
d’incontrare un giorno, dietro la neve, pieno
di terrore e di freddo
il mio ricordo.
*
Quién murió entre sus olas, el Tíber no lo sabe
el Tíber sólo sabe de las siete colinas
que tan mansas como él, la intercambian la imagen
así transcurre solo junto a siete colinas
mientras el remolino humano cae de todas las rocas.
Chi morì tra le sue onde, il Tevere non lo sa
il Tevere solo sa delle sette colline
che così miti come lui, gli cambiano l’immagine
così trascorre solo accanto a sette colline
mentre il turbine umano cade da tutte le rocce.
*
Cuando cansado desde el lecho, me levanto a mirarte
Juvencio, y otra vez
el cansancio reencuentro
de nuevo pienso en Cieno que los ojos de semen
sin cansarse cegaba; y cuando una vez solo
mira vacía la cama
como siempre lo estuvo
recuerdo
el látigo aún, con la última fuerza.
Quando stanco dal letto, mi alzo a guardarti
Giovenzio, e ancora una volta
ritrovo la stanchezza
io penso di nuovo a Cieno che gli occhi di seme
senza stancarsi accecava; e quando una volta solo
guarda il letto vuoto
come lo è sempre stato
io ricordo
ancora la frusta, con l’ultima forza.
*
Quiera Júpiter, cuyo nombre aún recuerdo
que ya por lodo unidos, Cieno
estando y sin sien, sin falo, sin laureles
mucho menos que un árbol mucho menos que un ave
en medio de los canes, recuerdo el senado,
ya el cuello y la cabeza al fuego deportados,
seas tú la muerte, y en el cieno
aún reciba tu insulto.
Voglia Giove, di cui il nome ancora ricordo
che ormai dalla melma uniti, stando
Cieno e senza tempia, senza fallo, senza allori
meno di un albero meno di un uccello
tra i bastoni, io ricordi il senato,
e così il collo e la testa deportati al fuoco,
che tu sia la morte, e che nel fango
io riceva ancora il tuo insulto.
*
Mataron cinco niños en sacrificio oscuro
invocaron a Hera, a Ceres y a Plutón
maldijeron de nuevo a vencidos Titanes
por el horror humano, danzaron sin descanso
hasta caer vencidos por el vino y el grito
y ahora al morir te digo, tú, Terímaco, hermano
no fue por Hera o Ceres por lo que ellos murieron
fue sólo por la esclava tan dulce que poseía
y a la que un día de viento, tal vez fuese el del Norte
sin piedad para mí desnuda me sustrajo.
Uccisero cinque bambini in sacrificio oscuro
invocarono Hera, Ceres e Plutone
maledissero ancora una volta i Titani vinti
dall’orrore umano, danzarono senza sosta
fino a cadere sconfitti dal vino e dal grido
e ora che muoio ti dico, tu, Terimaco, fratello
non fu per Hera o per Ceres che essi morirono
fu solo per la dolce schiava che io possedevo
colei che un giorno di vento, un vento forse del Nord
senza nessuna pietà per me nuda mi ha sottratto.
ANACREONTE
Razono en la taberna esa cercana del puerto
más oído por las olas que los marineros
que no sé ya si ríen o si apenas me escuchaban
que el amor es un sueño tan sólo para esclavos
y cuando veo un ciervo, no apunto a sus ojos
y en mi dardo se pudren las venas que en él hubo.
Mas si el amor es sueño, qué fuiste tú Cleóbulo
¿qué signo es mi vida?
Ragiono nella taverna quella vicina al porto
ascoltato più dalle onde che dai marinai
che non so se ridono o se a stento mi odono
ché l’amore è un sogno fatto solo per gli schiavi
e quando vedo un cervo, non punto ai suoi occhi
nel mio dardo imputridiscono le sue vene.
Ma se l’amore è il sogno, cosa sei stato tu Cleobulo,
che segno è la mia vita?
*
Cuando aparecen en el umbral tus pies
desnudos en las doradas sandalias calzados
y en la fresca savia de tus crueles ojos veo, Flavio
lo que ha de sucederme, miles
de flores se encienden entre el miedo de mi pecho.
Quando appaiono sulla soglia i tuoi piedi
nudi nei dorati sandali calzati
e nella fresca linfa dei tuoi occhi crudeli vedo, Flavio
ciò che dovrà succedermi, migliaia
di fiori avvampano nel terrore del mio petto.
*
“Va’ ragionando della strutta mente”
GUIDO CAVALCANTI
Aquel esclavo etíope, de todos era el más bello
cuyas piernas huyendo eran mejor que ciervos
oh las gotas mojando tan limpias sus caderas
de la laguna aquella en que soñé mujeres
y acezando perfecto, ya el sol todo en los ojos
al borde de los juncos limpiamente cazado.
Quello schiavo etiope, era il più bello di tutti
e le sue gambe fuggitive erano migliori dei cervi
oh le gocce che bagnavano così pulite le sue anche
dalla laguna quella in cui sognai donne
nel desiderio perfetto, il sole tutto negli occhi
al bordo dei giunchi facilmente stanato.