IL SOLE DELLE CASE HA INVASO LE CIME
Il sole delle case ha invaso le cime
e tu solido potevi essere rotondo
e dileguare con esse.
Il desiderio
se stesso trattiene e un viso opaco
morbido e fine come dentro a uno specchio
vede lui stesso e solo lui
per cortese malessere dileguare
ai piedi di un albero povero di bosco.
Ma si sapeva ciò che si spegneva
te ritto in piedi e un passo
dietro un altro era sì lieve
e poroso come era dove un altro
era un sostegno ne la sera
già piena.
Inerte una riva era pure di sughero.
Per quanto sapessi già di te sul marciapiede
non valeva esserti accanto, vicino
era altro essere che più non si richiede.
La discordanza era troppa,
gravitava nell’intercapedine
sempre di una doppia veste
dentro una dolce sembianza
sempre per un altro verso.
La città era arcuata. Felice un tuo nonnulla
certo non era, ma, vedi, mano a mano
la vena del fiume si era abbassata
a metà sonno, a metà fumo,
il fuoco era l’incesso
nell’insuccesso del tuo doppio nulla
che più non riconosco se non solo per un poco.
Da esso partiva il suo significato
e il riposo tuo perduto.
Più non odo
il tuo cuore.
Da la clemenza dei vivi
più non ritorni e non è più viva
l’onda o l’altra sembianza tua nuda.
Ferma odi una voce che sboccia
o altra sostanza densa
che avanza ferrea e ti ferma
o vaga sola già in frantumi
verso la fine di altra purchessia
giornata.
Non so chiederti altro
al tuo fianco. Odi il disco del tempo
che muta voce accanto al corpo mio,
e purché sia voce viva
che più non si riconosca
sia già fiume, odio, amore,
vena rorida di cose
dentro in un lume.
NON ALTRA SAGOMA ERA
Non altra sagoma era di senso e cielo
che mi sorrise su questa terra
di una curva di un silenzio
ch’era felice. Un’altra giornata
o l’alba adolescente erano miti.
Con gemiti una gioia oltre un certo limite
non mi permise di trattenerti
o di tradirti. Oltre era un cielo glabro.
Vidi la fatuità lenta dell’ora
diventata sull’erba verde tenera uragano;
o una fanciulla una creatura d’aria
era che mi sospinse. Inventata
era una lieve culla sempre più lontano
e tu potevi essere erba folta o grano,
qualcosa come il frutto maturo,
un esiguo giorno d’autunno
o d’inverno che pianamente in sé ristagna.
Un solco avevi arido ed umido
sulla fronte e non era più temperie vana
quella che aveva di sé intersecato
più solido il flusso incerto delle maree
avide come io avevo sognato invano
l’arida tua pelle sul tuo poco volto umano.
CADONO VANI SOGNI
Cadono vani sogni,
le sembianze nel nulla.
Non vano è il partecipare
che ti faceva accostare sin qui.
Cade anche la tua riluttanza
sui corpi inerti.
Se mi dolgo, se per voraci incanti
ed origini propendo, non era monotono
moto capriccioso del fiume, perduto
un tuo senso in ogni vero tuo momento.
Stai bene a vedere.
Se voci furono tante tardi a rapirti
non chiedere più del moto azzurro
vorticoso che si spande in un lume.
Tante parti ti attendevano
da tante parti diverse.
NON POSSO DISSUADERMI ANCH’IO
Non posso dissuadermi anch’io
se anch’io ripenso. Un passo lugubre
sul corpo, una cometa erano
e purché la gioia non sia sempre quieta
tenuta con furia, più porosa
di una vetta d’aria tumida
che costa troppo non poteva più essere.
Dentro una gabbia sul selciato parlo
e numero le ore del mio giorno.
Ripopolo il tempo mio con ombre
stanche e parlo da solo o mi corrompo
in un gruppo fragile e dissimulo,
perché le vene tumide dell’aria
erano una porta viscida che non più risponde
e, salvata in alto un’altra volta,
era da un’altra vetta che va più in alto
e che non varia.
SAPEVI ADDORMENTARTI
Sapevi addormentarti anche
nella grande ala dei morti
dentro un antico desiderio e, sebbene
rimormoro in umili bende la sete della saluta morbida
della giovanile
potenza ch’ebbe una volta la terra
sospesa o tetra o azzurra, arida
ch’ebbe essa un giorno dentro una favola
era un sospiro povero, supino,
spesso voluttuoso che accade
nell’immensità umida, spesso declina
o già si accende.
Sono persuasive le tue parole
dentro un ordine falso, ora anche
un dolore dentro uno scheletro
esatto che presto se stesso, non per molto,
riprende quanto non sapevo più dire
o un tulipano carnoso vivido di fiori,
umida una sera, che spesso, lievemente
smossa la brezza del vento
risplende.
Non so più se fu più laborioso
il caso di farmi sapere nocivo,
quanto fu per me il caso
di non essere vivo nell’opacità distesa
tenue della terra.
La tenuità stessa dell’ora
da sola nell’aria sempre già ti attende.
Il transito dei fiori dall’ombra
alla penombra sempre s’avvera.
Non è più rosea, né bruna una selva.
Ma questo é casto. Un canto che ti cinge
vorticosamente in due, separatamente
nel tramonto sdoppia fermamente
la tua sera.
Forse non ricordo più nulla
di quanto era vivo e disperatamente
vivido accende entro un ordine curvo
sopra acque la strana sua lievità
morente.
Mi piacque nel sordo
rivolo il ruvido ricordo nel canto
della materia che pareva plumbeo.
Il volo del pensiero pareva nascere
per essere più solo.
Comunque come compenso ebbi acque
e in abbondanza.
Non nego ciò che pareva
per essere più povero.
Sempre odo
per avere avuta la stessa vita
remota in dono, simile a me stesso,
da uno che sembrava per essere già in volo.
Lorenzo Calogero (1910-1961)
5 poesie da “Avaro nel tuo pensiero” (Campiglia d’Orcia, 16 ottobre 1955 – 27 ottobre 1955)
(ora pubblicate nel libro omonimo edito da Donzelli, 2014)
Un poeta ingiustamente dimenticato