BREVE NOTA SU “I DESTINI MINORI” (Il ponte del sale, Rovigo, 2017) DI ISACCO TURINA
Isacco Turina, dopo anni di attesa, esordisce finalmente in poesia con questa matura e densa raccolta di versi, intitolata “I destini minori”, e pubblicata dalla splendida casa editrice di Rovigo, Il ponte del sale. Un libro denso, dicevamo, sicuramente ragionato, data la sua lentissima maturazione. E con precisione e maestria Turina ci mostra il suo inferno, che è anche il suo paradiso, il destino minore di un poeta nel purgatorio del quotidiano. Ma quali sono i destini minori, plurarli, a cui allude il titolo? Forse quelli dei “bruciati, i brutti / i deboli, fantastiche creature / tagliate nella carne”, come recita lo stesso Turina in una delle poesie più pregnanti della silloge? Probabilmente è proprio così. Perché Turina ci parla di un mondo abitato dalla muffa umana, da quelle spore apparentemente innocue e indifferenti, che invece hanno dalla loro parte il potere dell’inerzia. E così la poesia di Turina pare nutrirsi di questi parassiti umanissimi e fragili, e pare viaggiare, riprendendo nuovamente un verso dal libro, “ancora incerta tra la carne e il verbo”; poichè di questo tratta, in fondo, la poesia del poeta veneto: di lacerare, dal fondo della lingua, soprattutto la carne, o meglio detto, ciò che resta del corpo vivo, attraverso l’espiazione del linguaggio. In fin dei conti questi destini minori sono i resti dei vinti, la vittoria delle carcasse e degli sputi sul rifiorire e rinnovarsi dell’esistenza che, resistendo, si glorifica e vanifica da sola. Il destino minore del tempo che gioca contro di sé. Ne viene fuori questo diario di sangue e di ossa, questa “verifica dei destini” oltre che degli smorti “poteri” (qui intesi come i poteri del resistere all’invisibile) che porta verso un profondo lontano, verso un confine conosciuto solo dagli abissi, perché, come dice il poeta, “Solo i naufraghi conoscono il mare”. E in questo mare poetico, i naufraghi sono tanti e sono profondissimi.
Antonio Bux
10 poesie dal libro
***
Mi chiedi un figlio. Ovvero: come un dono
di carta colmo d’acqua, l’animale
che non posa sui rami e non sprofonda,
lama che divide le spighe
dai gambi, e il portatore sottopelle
di radici che ignora. La creatura
che stancherà i tuoi muscoli
fino a conoscerne ciascuno
e a tramandarti viva, ma staccato
il tuo viso da te come un affresco
mentre tu diventi muro. Mi chiedi
un figlio, dici, perché questo imbuto
che sentiamo d’essere, soffocato
di sabbia bagnata e muto benché
nutrito di tutte le parole
e d’altro ancora, restituisca infine
un granello alla terra, a tutti i libri
almeno una sillaba.
INTERNO PARIGINO
Questa casa di vetro e di pareti
dove, stesa, separi la tua morte
dalla mia, beve la penombra
continua, se ne gonfia, conosce i volti
che su strade e cortili, prima dell’alba,
da un’inonnia si affacciano a sputare.
L’ALUNNO DELLE STELLE
Sono stato l’alunno delle stelle
nel chiarore infinito
delle sere d’estate.
“Distenditi nell’erba,
ogni filo incontrerà il suo destino”.
“Chi ha parlato?”
“Nessuno”.
“Ho paura”.
“Sei padrone della notte”.
“Mi cercano”.
“Nessuno sa che manchi”.
Tra le uve ancora acerbe e il canale
che portava notizia di fiumi lontani
mi sono disteso.
“Dimentica il tuo braccio,
le maniche macchiate,
abbandona alle stelle
la mano analfabeta del bambino”.
Morivano nel sonno le piccole luci.
La mano che ora pettina la terra,
alunna delle stelle,
la mano analfabeta scriverà.
***
A vent’anni, non tutti sono in strada.
Dentro rimangono i bruciati, i brutti,
i deboli, fantastiche creature
tagliate nella carne. Il genitore
che li veglia, confuso si ripete:
“Seminavo gerani, e sono nate
erbe di ricino abnormi”. Nel sonno
imperfetto li ascolta maledire
ogni argine, le palpebre e le mura.
Sogni cannibali si nutrono di loro,
spose come cucchiai da masticare.
Quando escono al buio
rovesciano sui muri i loro sputi,
e gli escrementi e la potente urina.
I più delicati muoiono presto
disfacendosi come
giovani biblioteche scese in mare.
Altri resistono. Allora vedrai
cinquanta chili d’uomo
che portano quintali di memoria.
***
Ricordo la ragazza che a lezione
– anoressica, in larghi pantaloni
che esponevano gialle le caviglie –
scendeva con rumore gli scalini
di legno e si piegava sulla cattedra
a copiare le carte del docente,
distaccata e mai presa dal sorriso
come un ramo abitato da un’idea.
Scesa da un crocifisso in mezzo a noi
ancora incerta tra la carne e il verbo.
*
Sangue di mosche sul muro. Eppure abito
qui, come belva agli abbeveratoi.
Cresce il muschio notturno sui canali,
suono di palpebre umane, di pane
invecchiato nelle tasche.
E odore di vernici che s’incendiano
addosso alle cose, che svelano
l’alvevo bruciante del colore.
Indirizzi di possibili intervalli
tra l’occhio e la narice.
Lirica sull’intonaco, incompiuta:
“Mio corpo, ripostiglio
per le ossa, luogo in cui stipare
sulla terra il superfluo della notte”.
Memoria di bambini che si muovono
nel buio, la mano alla parete, il piede
che tasta lentissimo l’aria.
I NAUFRAGHI
“Nei giorni estremi mi piscerò addosso,
ma per ora il mio cesso è la città”.
I capelli bruciati,
le teste enormi chine sui corpi esili,
campo di girasoli a fine agosto.
“Solo i naufraghi conoscono il mare.
Voi che poggiate sulla nave
e credete a una destinazione
come potete ancora lavorare?
Ho capito il lavoro quando ho visto
mia madre uscire dal supermercato,
l’acqua in una mano,
nell’altra i pesci”.
I FIGLI
Vent’anni fa, anche questo accadeva.
Non erano soltanto fuochi
dal Medio Oriente, ma nei giardini
di casa nostra, vestiti
da alpinisti scalavamo le loro
schiene perfette. I figli dei malati
dormono sulle punte di un pettine.
Gettiamo cenere su quelle fronti
ancora troppo lucide:
domani, vecchia madre, impazziremo
assieme e non dovremo preoccuparci
più di noi, né di niente.
Ma chi ha scavato la sua tana
nei corpi dei genitori? Trent’anni,
e con un braccio reggevano intero
il nostro mondo. Ho visto dai visi
staccarsi l’età, lentamente
come evapora l’acqua da una pentola.
Tutte le sigarette moriranno
stanotte nella neve, nella pioggia.
O moriremo noi, nel loro incendio.
*
Si spoglieranno gli angeli
durante il temporale, e pelle e piume
offriranno alle carezze dei lampi.
Come l’alba quando medita il male
del giorno, scuoteranno ai venti
la cima pensierosa delle ali,
concedendo che i gatti alle finestre,
con gli occhi spalancati come ortensie,
di paura s’innamorino di loro.
*
Ho gettato il tuo spazzolino.
Se non ci fossero, a resistere,
oggetti che lavano, cantano
e scrivono, nemmeno un passero
potrebbe posarsi sui giorni
slegati come una foresta
senza rami. Sui treni del mattino
l’alba ha seminato la luce.
Ti svegli in un nuovo pianeta,
in un’altra città. Raduni
le labbra divise dal sonno
per l’ultimo bacio alla notte,
per non accompagnare mentre
si aprono i fiori che hai lasciato.

Isacco Turina (Villafranca di Verona, 1976). Ha curato i volumi di saggi “I nuovi eremiti” (Medusa, 2007) e Chiesa e biopolitica (Mimesis, 2013) . È presente, come poeta, nell’antologia “L’opera comune” (a cura di G. Ladolfi, Edizioni Atelier, Borgomanero, 1999). I Destini minori (Il ponte del sale, Rovigo, 2017) è la sua prima raccolta.