ALFONSO GUIDA – ESTRATTI DA “IRPINIA” (POIESIS EDITRICE, ALBEROBELLO, 2012)

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“Nella desolazione attuale di una poesia esiliata da se stessa perché (non) promossa da irresponsabili responsabili di settore all’interno di un’editoria che nulla ha di poetico (di certo non i cataloghi), la poesia erompe talvolta da eroiche marginalità, carsiche escursioni nel vero. […] Una visione che nell’accadere del terremoto (nel nostro caso, quello che ha sconvolto l’Irpinia il 23 settembre del 1980) tocca le cose e ne è toccata diventando il luogo che è incontro tra noi e quanto succede (è successo), mediante il linguaggio e le sue leggi e attraverso un’alchimia che solo i (rarissimi) poeti veri conoscono e mettono in pratica: trasformare il linguaggio e le sue leggi (che Guida conosce incredibilmente bene) in cose, e le cose in poesia.[…] Dopo e durante il concepimento dello spavento restano le forme che l’entropia universale sta per cancellare e Guida “tiene ferme” (hegelianamente) come scattando un’inesorabile fotografia di nostri insondati procedere che hanon a che fare con la vita e la morte, specchio di tutto esattamente come si manifesta ma che noi non abbiamo il coraggio di vedere. Per noi, lo vede il poeta. La malattia (il dolore) di Alfonso Guida (che fu di Torquato Tasso e di Dino Campana, di Amelia Rosselli e di Alda Merini) è fermarsi laico nella notte mistica[…] È questa la continua sfida della poesia nella modernità che non finisce (la modernità tragica dell’esilio degli dei nietzscheano): nel taglio della tela di Lucio Fontana come nell’esondare dei grandi che hanno prceduto Alfonso (“Vita: una lunga ferita nell’inesistenza”, Ghiannis Ritsos). E sono grato a Alfnso che di questo perpetua in ogni istante la potenza e la bellezza.”
(dalla prefazione di Aldo Nove)
 
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“Ho sempre pensato che questo poema, fondamentale, di Alfonso Guida, forse la sua opera più decisiva finora pubblicata, dovrebbe essere adottato come testo scolastico, offrendo finalmente ai giovani studenti il modo di confrontarsi con un “presente” poetico vicino, ma quanto mai vero e autentico. Proprio perché il doloroso catalogo, che Alfonso propone incessantemente, è il passaggio testimoniale di un’epoca morta, moribonda, se vogliamo, una dimensione dove i morti seppelliscono i vivi e dove le cose sono finalmente restituite al loro invisibile sonoro; ed è anche il solo atto di fede, senza consolazione alcuna, se non nel meccanismo, perverso e salvifico allo stesso tempo, di essere la sola azione possibile, per il poeta, come affrontando, nel corpo a corpo poetico, prima di tutto l’esperienza, e dunque l’esistenza spogliata del suo “primo” reale, per offrire una verità multidimensionale, che spesso sfugge all’occhio pigro e non esercitato all’ascolto millimetrico. E non c’è intellettualismo spicciolo o forzato, in questi versi, né pose futili dell’io o scomode sovrapposizioni autoriali. Alfonso Guida non mente. Poiché Alfonso Guida è davvero un sottratto e, conoscendolo, parlandoci, lo si può intuire presto. Egli si fa uno (e dunque dualità, e poi trinità, per ritornare infine zero) a se stesso, per dirsi addio vivendo. Alfonso Guida si muove, è mosso, è vivo. Una grande lezione di sentire che, a mio parere, servirebbe molto a quei giovani che si vogliono avvicinare alla poesia contemporanea, poesia spesso sconosciuta, che mai come oggi invece mette radici dirette, senza mediazioni nel male abbandonato e impensabile, stando allerta sempre, ma soprattuto fuori da ogni tipo di connivenza sociale, alla larga da ogni conventicola pseudoumana e, dunque, assai detestabile”. 
 
Antonio Bux

 

 

estratti da “Irpinia”
 
Gente accorre per strade, strettoie, sui
marciapiedi sbrecciati. Anche le scale
di ferro e legno sui casamenti. Una
luce votiva. La banda del paese
sul palco in piazza. Gente accorre. È festa.
Santa Cecilia suona l’arpa o forse
la fisarmonica. Qualcuno dopo
pochi minuti dirà: “è stato un boato.
Non credevo che saremmo finiti
massacrati. Dopo la prima fine
del mondo ce n’è una seconsa. Tiene
forte la sedia che porta in soffitta”.
La madre lascia gli oggetti al loro posto
li spolvera, li incenerisce a mezzo
di uno sguardo. C’è chi esce, c’è chi resta n
casa. Ma la sorte non è uguale per tutti.
Non per tutti. Qualcuno sarà sveglio.
Dopo il cristallo di rocca, la pentola
sul fuoco, il brodo buono, contadino.
Le campagne per ora hanno un colore
desto. Un bosco rosso scarlatto piega
le radici nel vuoto. Non so come
sia caduto disperato. Non ne so il
motivo. Sembra un presentimento, una
predizione del disastro. Le stelle
perfino, in branco, abbandonano il cielo.
 
Ce ne dobbiamo andare di qua. Tutta
la tempesta porta via il sonno. Intanto il
calvario suona nere campanelle
di gregge, il kerosene si è spento. Non c’è
nulla. Arcate su arcate, perdura
la tirlindana del dolore. Solo il
barcaiolo raccoglie pesce a riva.
Sembra miracolosa la sostanza
dei fogli. I lemuri alti e sfarfallanti
stanno al sicuro. Ma i gatti si aggirano
per piazze bianche. Il carbone è sottile.
 
Di schianto i colombi tornano in cima al
castello normanno. Tutto avviene di
schianto. Di schianto. Schiatta anche il tuono
mascellare dell’orto. Il grido fermo,
serrato. L’angoscia apre le narici.
Tutto il respiro è abbreviato, conciso.
La notte, sincopata. Una novena
di sorelle asseconda le persiane
rotte, la vasista del gabinetto
completamente sfregiate. Un contegno
molle, un ribollire arcano di pietre
religiose. Il mare. Non so come abbia
ricevuto le ferite. Piagato
forse sta al centro di un pensiero illeso,
scandaloso. Non avverte nient’altro
che il rumorio alacre delle sue onde. Altre
gambe, altri occhi, La mente arrovesciata
sui materassi in lamiera, sui letti
fracassati. La madre fiata, aggrotta
per poco il candeliere d’argento che
trema. Ne fa un rifugio, una caverna.
Disserra il fieno dei muli. Ne sparge
l’odore sotto il desco. L’erba, il cuore
dell’erba, le dita e la testa, bruciano i
capelli, certe carezze squamose
prendono distanz dal vetro acre e terreo
delle guance. È un tremare continuo. Una
continua stasi. L’immobilità miope
del santo crollato addosso alle pale.
La porta è chiusa. Ma la morte a stento
restringe le sue forze. Ardi, madre che
vieni a me sogghignando per le salde
congiunture tiranne di due ombre, ombre
tiranneggianti, in preghiera sui viali.
Le medicine allineate sul vecchio
comodino. Soprattutto le gocce
per il cuore. Un sembiante, un corollario
di furori elettromagnetici si
sfalda in bocca dove la luce è accesa,
morbida, frugale. Si temporeggia
sotto i cuscini abbarbicati intorno al
fiasco di latte. Latte di capra. Poi
messo a pastorizzare tra le cuffie
del fuoco che sprigiona terra e sassi.
Detriti e pietrisco. S’inciampa dentro
la ghiaia. Si corre fuori. Fuori, si
corre ai ripari e salvi sono solo i
morti, solo i morti parlano lingue
di salvezza, un ateismo di frontiera.[…]
 
[…] Vidi questo. I cornicioni e i lenzuoli
saltare giù dai portici, dai grandi
colonnati del piazzale. Novembre
possiede un nome interno: defogliante
barca dei morti. E ai morti già esistiti
si aggiunsero i morti sopravvenuti,
come scacchi, alle chiese sconsacrate, ai
cimiteri barbarici. L’erba si
muoveva inerte, insonne, deformabile, in
certe vaschette murate nel solco
delle nicchie, all’interno delle grotte.
Piccole vasche sottili di creta
col basilico e i ciuffi di cumino
sporgenti e radi. Il rigarsi ossessivo
dei volti, il corrugamento ancestrale
dei volti. Le stanze decapitate,
le stanze inabitabili. Una vampa
di metano, il primo metano. Sangue
di candele intirizzite. Una gialla
sassifraga occulta, occultata. Entrammo
nel battesimo selvatico e arsiccio
del corridoio esterno. Depredati
come bestie da una cella. Insufflati
nei vapori agresti, arcani, nell’urlo
dei linguaggi sacrileghi, osceni.[…]
 
Alfonso Guida (San Mauro Forte, 1973). Nel 1998 vince il premio “Dario Bellezza” nella sezione “Opera prima” con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte a cura del Laboratorio delle Arti, Milano. Nel 2002 vince il premio “Montale” con la plaquette Le spoglie divise (Quindici stanze per Rocco Scotellaro). Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste, fra le quali “Poesia”. Ha approfondito in particolare l’opera dei poeti Dario Bellezza, Amelia Rosselli e Paul Celan. Ha pubblicato, inoltre, i seguenti libri di poesia: Il dono dell’occhio (con prefazione di Maria Grazia Calandrone; Poiesis Editrice, Alberobello, 2011); Irpinia (con prefazione di Aldo Nove; Poiesis Editrice, Alberobello, 2012); Ad ogni passo del sempre (risvolto a cura di Maria Grazia Calandrone; Nino Aragno Editore, Torino, 2013); L’acqua al cervello è una foglia (Lietocolle Editore, Faloppio, 2014). È in uscita, per le Edizioni Il ponte del sale, di Rovigo, la silloge Poesie per Tiziana.
 

 

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