THOMAS MERTON – NELLE ROVINE DI NEW YORK (da “Poesie”, Garzanti, 1962)

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NELLE ROVINE DI NEW YORK
 
La luna è più pallida di un’attrice.
Abbiamo visto il suo lutto nell’edera bruna
dei ponti arborescenti, –
nell’edera bruna e làcera
che ama solo un arco d’aria pura.
 
La luna è più pallida di un’attrice, e ti piage, New York;
cercando di vederti attraverso i ponti a brandelli,
e si china per udire il timbro falso
della tua voce troppo raffinata
i cui canti non s’odono più!
 
Oh, quale quiete dopo la nera notte
in cui le fiamme erompendo dalle nubi carbonizzarono
i tuoi denti cariati,
e i lampi
bucarono i neri foruncoli di Harlem e del Bronx
e dispersero i rimanenti prigionieri
(decine, ventine di vivi)
fra gli alberi di Jersey,
per le verdi fattorie, a trovare libertà.
 
Come sono state distrutte, come sono crollate,
quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio,
fuse da quale terrore e da quale miracolo?
Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
nella collera bianca della loro accusa,
quelle torri d’argento e d’acciaio?
 
Tu, le cui strade crebbero sui tralicci,
con radici in Bowling Green e perni nell’Upper Bay,
perché sei, ora, spoglia fino allo scheletro;
cosa è divenuta la tua carne viva e morta?
dove sono i luccichii delle tue foglie oscene?
Oh, là dove i tuoi figli, la sera dell’ultima tua domenica,
sparavano gli uni sugli altri all’ombra del Paramount,
le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle
volute del fumo,
velando le tue esequie nella loro bruma;
e scrivono il tuo epitaffio di braci:
 
“Questa fu una città
che si vestiva di biglietti di banca.
Visse quattrocento anni,
e nelle vene le correvano nichelini.
Amava le acque dei sette mari porpora,
e ardeva nel suo porto verde,
più alta e più bianca di ogni Tiro.
Era senza cuore come un taxi;
aveva occhi altocoturnati talvolta blu come il gin,
e li inchiodava, ogni giorno della sua vita
sul cuore dei suoi sei milioni di poveri.
Ora è morta nel terrore d’una improvvisa contemplazione,
– annegata nell acque del proprio pozzo avvelenato.”
 
Possiamo noi consolarvi, astri,
della così lunga sopravvivenza d’un tale vizio?
Domani e dopodomani
le erbe e i fiori cresceranno
sul seno di Manhattan.
E presto i rami del noce e del sicomoro
s’agiteranno dove furono tutte quelle sporche finestre –
l’edera e la vite selvatica
strapperanno quei deboli muri,
seppellendo quelle facciate in grès nella freschezza e fra
i fiori profumati;
e la rosa e il pomo selvatici
fioriranno in tutte quelle valli silenti al centro della città.
 
Vi saranno nidi di colombi, e alveari
nei precipizi dei vecchi appartamenti,
e gli uccelli canteranno nei biancospini assolati
dove una volta fu Park Avenue.
E dove fu Grand Central, s’alzerà una collinetta
coperta di dolci, ombrosi pini.
 
Credi che ci sarà qualche coltivatore
il quale dissoderà un angolo nei boschi,
e su un acro farà trionfare il màis,
sulle alture dominanti la foresta di Harlem?
I cacciatori verranno a esplorare
le vergini radure di Broadway, per le lince e il cervo?
Oppure, qualche eremita, celato fra le betulle, si crostruirà una cella
con le pietre del municipio,
quando il metrò sventrato si muta in fiumi
e ruscelli pieni di pesci
e scorrenti, nel sole e nel silenzio, verso la Battery
coperta di canneti?
 
Ma ora la luna è più pallida d’una statua.
Essa appende la lampada
agli alberi di ferro delle Esperidi distrutte.
E in quella luce, sotto le caverne che furono banche e teatri,
i barboni escono a giocare –
e noi crediamo udire il canto delle mantìcore
echeggiare lungo le pietre di Wall Street e di Pine Street,
 
E siamo pieni di paura, e più muti degli astri riversi
che vanno zoppiconi nelle acque fangose,
più muti della madre luna che, bianca come morte,
vola e fugge per i deserti di Jersey.
 
di Thomas Merton
 
da “Poesie” (Garzanti, 1962; traduzione di Romeo Lucchese)
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