NELLA MISURA DELLA SFIDA
Questo nuovo libro di Annamaria De Pietro (Rettangoli in cerca di un pi greco – Il primo libro delle quartine; pp. 172, euro 15, Marco Saya Edizioni, Milano, 2015) , è innanzitutto un libro di misure, di sfide. In questa sua misura della sfida, nella sua dismisura approssimativa l’espressione poetica qui traccia un contenitore di rimandi e giochi stilistici che contorna la pagina a suo piacimento, formando una sorta di spartito algebrico, a volte una specie di dizionario quantico, plasmando geometrie di suono e di senso, ma non solo, provocando una sorta di ludus poetico, vuotando il bianco di uno spessore ritmico imprescindibile, tipico di certa poesia della presente poetessa. Poesia spesso alta, nei suoi toni e rimandi, colta, quasi “maieutica” per certi versi. In questo suo nuovo lavoro, però, è questa precisione scansionata tra verso catatonico in quartina e allungo in prosa piana che sembra portare a una deriva scissoria, dato che tutto il libro è scandito da questo continuo rimpallo tra versi in tondo, più dissonanti, e referti narrativi, più ragionati. Dunque è un binomio dei poli, positivo e negativo, che alternano, volutamente, il risultato: una variazione di fuga in corso, imperversa in uno stile che, lasciato il magmatico barocco di alcuni libri precedenti, il sistema endecasillabico e la rima impropria, volteggia ora in una flebile armonia che procede tra cadenze pausali e solchi prosodici misti. Ed è, in questo rigore matematico (espresso nella variante della forma che insegue la costante irrazionale, sin dal titolo), che però si espandono e dilatano i toni, tra il ragionato ed il mistico, in alcuni casi, ponderato di una sua stessa carica spesso antiretorica, se vogliamo, o meglio detto, di un nucleo energetico che s’incaglia quasi nel suo pensato d’origine, agendo come vero ostracismo del pensiero che si coagula fino a disperdere le sue tracce per evocare altro, per invocare l’altro. Sì, perché è nel silenzio di questi affondi, nel quasi accennato, che vi è la vera molla eversiva dell’opera. È la ricerca, volta al margine, chissà, che compone la fiamma viva del testo, scandito da un presunto horror vacui, che in realtà non è altro che il timore del tremore stesso. Perché è proprio nell’intensità delle rime interne, e nelle ricuciture a strappo di questa poesia, così ben costruita e ridotta a piccoli mosaici, che vive il respiro dell’intero corpus della voce della De Pietro, che induce il lettore a costruire e disfare un puzzle poetico di rara precisione e originalità, riuscendo, nella compattezza del libro, a trovare forse un filo provvisorio di continuità universale che prende forma e sostanza dalla perdita apparente del senso, nel solco di una tradizione che si rinnova continuamente, in questa bravissima poetessa, a favore della ricerca di una lingua comune, più vera, o forse solo più autentica.
Antonio Bux
(seguono alcuni testi dal libro)
*
La perfettissima madre
Da lei accompagna i cani chiusi fuori,
i gatti che alla porta
aspettano, alla figlia dei suoi amori,
al suo sguardo che ascolta
fole di volpi, di rane racconta,
leggende di castori.
Così era mia madre, Carla occhi di nebbia.
*
Di spalle
Rapido è il giro del sole. In istanti
pochi si sposta sul tavolo la linea d’ombra
in progresso che anticipa gli esitanti
progressi di tramonto contro l’ora che sgombra.
È mia abitudine seguire sul campo di gioco del tavolo della cucina, che è molto
accostato alla finestra, progrediente e regrediente con il ciclo delle stagioni la linea
di sole e d’ombra, la sua carriera di conquista e perdita a cadenza lentissima del
territorio strategico del tavolo di cucina. È come giocare coi soldatini, Washington,
Kutuzov, Napoleone nel loro quartier generale; i maschi lo fanno da piccoli, le
femmine da grandi.
*
Il velo
Amante e amato nebbia traslucente
disgiunge, e quella cosa non è cosa,
né corpo. Come il velo di una sposa
resta alle spalle, muda di serpente.
Solo un messaggero in ritardo, un sonnifero frainteso spezzano irreparabilmente
il giovane arco dell’amore di Romeo e Giulietta? Non credo. Se andate in gita
domenicale nella bella Verona guardate quanto è distante il selciato della corte
dal balcone, guardate come non esiste il rampicante che fu scala al funambolo,
guardate come l’aria d’Adige soffia foschia. Guardate.
*
La schermante
Aspetta il tempo, come se non fosse
tempo quello che passa nei ritardi
– così un nastro nel lino. E se la tosse
che scoppia nelle canne i suoi petardi
non fosse il suo respiro, ma percosse
di tamburi a una festa fra stendardi.
Scherzare sopra la mia tosse è quasi obbligatoria pratica di fumatrice.
Scherzare sopra il tempo è pratica quasi obbligatoria.
Scherzare – schermare.
*
Tecnofagia
La casta madre senza fame becca
la curvatura esatta delle uova
voltata senza grinza e senza pecca.
La tavola è la paglia della cova.
Le galline mi terrorizzano. Credo fermamente che siano l’incarnazione di
Satana che, protruse in parto immondo due luride zampe a croste di serpente
scabbioso, se ne va urlando stupido e cattivo e dà di becco nelle ferite delle
compagne di pollaio e in tutte le porcate catarrose che il suo occhio feroce trova in
terra; né si astiene dalla sua propria figliolanza, sbranando crudo dentro l’ipotesi
perfetta di dio il saporoso tuorlo di sé stesso.
Dico questo anche a nome di tutti i gatti neri del creato.
*
La quinta aperta
Ma tu che nei cassoni hai chiuso il vento,
non metterti paura se i pavoni,
se il vetro, se le spade, se i cicloni,
se dai coperchi aperti scappa il vento.
Disse il vento alla foglia: “Non sono io che ti porto, è la tua vela fragile, la sua
tela leggera. E il luogo in cui ti fermerai non sarà fatto di vento, sarà una casa
piccola, la tua piccola casa di cenere”.
Rispose al vento la foglia: “Vieni con me, qualunque sia il tuo fare e il tuo non
fare, perché cadendo io non mi faccia male. E pensa tu alla cenere: io non potrò
più farlo. Falla volare, portala, di casa in casa in ogni strada, fino all’estrema
cortesia di una soglia”.
*
La fisica della caduta dei gravi,
ovvero
La creazione progressiva di dio
Ti prende come cadi telo teso
fra i pali che drizzarono maestranze
al soldo del gran re delle distanze,
delle altezze, dei termini, e del peso.
Quando a decine si precipitarono giù a capofitto dalle Twin Towers legione
di dèi minori di tutti i miti e di tutti i riti si precipitò, con una certa calma, a
squadernare per ciascun cadente, tirando ai quattro angoli, teli ben tesi di tutte
le stoffe e di tutti i colori. Ma prevaleva il pizzo ad ago color del tempo (ricordi
Pelle d’asino?), e così per le belle scalee dell’aria planavano a capofitto i
paramenti sacri, le pianete, le gualdrappe, i tappeti volanti, fini e leggeri, ciascuno
treccia e frangia dell’aria, giù agli accampamenti nomadi degli stracciai.
*
Rio de la Plata
La morte argento impallidisce il fiume
(dalle terre coi sacchi porta argento).
Il fiume il mare impallidisce dentro,
argento d’aria che svuota le schiume.
Il ciclo dell’acqua è ricolmo, è rigonfio di cose solide che ininterrottamente gli
nascono, gli muoiono dentro. La più vecchia è l’argento, suo mirifico avatar
pesante, suo agghiacciato paredro.
*
L’astrologia,
ovvero
Le case scambiate
Tu non saresti più quell’astro grande
che non si vede, ma che splende certo
in altra zona di un cielo coperto
se tu, non io, ponessi le domande.
Dio non esiste, a mio parere; ne ho una certezza indiziaria, per quel che vale.
Ma esiste la parola dio, e allora ecco che subitamente si apre tutto il teatro della
storia di dio, e della sua antropologia comparata, adiuvanti tutte le presenze
e figure del cosmo; e quali presenze e figure meglio degli astri, bellezza estrema
e lontana, saranno a scambio gli attrezzisti, i mascherati servi di scena?
*
Dell’addensare
Tutta si volta al denso la manteca
da fuoco e forza per sparse materie
dentro una norma dura, alta temperie
vittoria sopra la pausa che spreca.
Manteca è una di quelle parole spagnole – come ventana, madrugada,
tienda de ultramarinos, che pare vadano a cavallo, cappello piumato, in un
vento di vaste pianure.
Dirle, scriverle, è entusiasmante, con la gratitudine di chi sia stato ammesso ad
un verdadero diwan d’Occidente dove è la riva dell’Oceano Mare.
*
Ombre cinesi
Vòltati. Di qua cresce bene l’ombra.
Non troppo sole, non troppa acqua,
l’innaffiatoio è di zinco verde e lacca
cinese, di Shangai, con chiodi d’ambra.
Mi piace poco la forma cinese, forse anche perché ormai irreparabilmente
banalizzata dalla cineseria, da quella nobile delle belle porcellane e terraglie
settecentesche all’esecranda paccottiglia per turisti stanziali. Pure vedo anch’io
che un suo fascino ce l’ha; ad ogni modo qui, per non deflettere troppo dal mio
dichiarato gusto dominante, non lo tengo per me, e ne faccio esortazione e dono,
a chi lo vuole, cineseria di cortesia.
*
La granata
Non maggiore di un astro, non minore
di un ovetto di ghiaia, ma di quel calmo
giusto circuito che sta dentro il palmo
di una mano è la granata dell’amore.
Millantato equilibrio. Dalla coppa da champagne al vulcano Etna tutte le
misure sono ammesse.
*
Aerostatica dei fluidi
Una zanzara centifolia irrompe la spina
contro la spina del sangue e calma le scale
montanti per la minuta furia elicoidale
dalla cannula infusa da una ciliegia corvina.
Questa zanzara alchimista e molto paludata mi fa più paura di quanto
normalmente dovrebbe una zanzara. Una volta colpivano solo di notte. Ora, da
qualche anno avendo esteso l’attività alle ore diurne, hanno perso buona parte
della loro aura gotica e corvina; a questa mia zanzara di passo e di quartina
l’ho reintegrata io, in omaggio all’aura e al buon tempo antico. E, couturière
tassidermista, l’ho abbigliata centifolia, mostro natural-artificiale da margraviale
wunderkammer.
*
Autocombustione
Lacca bruciata. Luna è una caldaia
cava, rame brunito, che bollente
raggrinza e strina la placca lucente
tutta che gira, compaia o scompaia.
Quando la luna è gialla caramellata ha un buon sapore dolce e appena appena
di bruciaticcio. Allora la grande stella che sempre l’accompagna girandole attorno
da una parte e dall’altra (non so se sia Espero-Lucifero, ma diciamo che lo è
perché così ci piace) quasi non la riconosce, tanto cambiata dal comune candore
condiviso, e quasi non si azzarda a dirle – luna.
Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Rettangoli in cerca di un Pi Greco – Il primo libro delle quartine (Marco Saya Edizioni, 2015) è la sua ultima pubblicazione.
L’ha ribloggato su poesiaoggi.
Libro oltremodo interessante, arricchito da una grande sapienza compositiva e ritmica, oltre che da una struttura contrappuntistica davvero originale.
sì, è un libro molto intenso, da leggere interamente per coglierne le sfumature che una recensione e qualche singolo testo, ahimè, non riescono a rendere del tutto…Grazie per il passaggio, un caro saluto!
Bux