LEOPOLDO MARÍA PANERO – DA “IL CERVO APPLAUDITO” (EDB EDIZIONI, 2013)

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UNA VOLTA NON SONO STATO (L’APPLAUSO DEL CERVO CHE NON ESISTE)

Capita che si muoia. Capita anche che si viva a morte. Capita poco, ma capita. Non capita invece spesso di svegliarsi la mattina ed essere Leopoldo María Panero. Essere l’ultimo poeta. Non capita spesso, ma per sbaglio può capitare. Come può capitare anche di sbagliarsi. Ad esempio, mi piacerebbe alzarmi la mattina, avvolto in uno sputo di esistenza e vedermi schiarito e vecchio, logoro della mia stessa assenza, cercando nel mio naso elfico e nella mia bocca sdendata la parola FINE. Ma io non sono Leopoldo María Panero, e mi sveglio come un coniglio. Sbucando dal foglio smerdato della giovinezza. Eppure sono stato Leopoldo María Panero, il giorno che questo è venuto meno al suo specchio. Il giorno che è stato un Narciso rifiutato, nell’accordo estremo del flauto. Quel giorno, il 5 marzo scorso, dopo le 23, sono stato per un attimo Leopoldo María Panero. Ero io, o forse solamente non più lui. Allora mi è sembrato di respirare come non esistendo, e di esistere nel suo respiro, nell’ultimo suo respiro prima di dire addio all’eterno poema. Già, al cane immondo della vita. Ma non ero io, mi sbagliavo. Era l’ombra di Leopoldo María Panero, salutandomi con l’arancia sporca tra le guance, l’arancia sporca di me stesso. Giacché io sono la vita, la bestemmia atroce della vita. Eppure, sono stato Leopoldo María Panero. Come anche sono stato Ianus Pravo. Colui che è nato, l’ultimo assassino. Una volta lo sono stato, assassino nella tomba malata dell’idea, nel buco paonazzo del braccio illividito, nell’alluminio che divide la notte e che piega il cervello, sono stato una stizza di fuoco nell’occhio di Ianus. Ho visto la sua mano scomporsi e rifare il corpo vuoto di una donna, uscita fuori dal bacio del tremore. E ho visto me dentro Pravo cacciare il fumo dalla mente per tornare alla vita tumefatto, senza più cuore. E sono nato in quell’istante, sparendo dalla mia vista. Dunque sono nato anch’io, una volta, e sono morto almeno una volta, sicuramente, nell’ombra di due morti che ritornano a domandare: Sapresti vivere senza vita? Sapresti uccidere, per la vita? Potrei, forse, cancellando il mio sempre. Ma quando ho vissuto a morte, non ero io, non ero io ma erano i morti che proteggevano al volo la mia morte. Erano Ianus Pravo, colui che è nato, l’ultimo assassino, e Leopoldo María Panero, colui che è nato morto, l’ultimo poeta. In alcuni versi ho visto questo, in passaggi vuoti la protezione di chi non c’è più, essendoci stato troppo. L’assassino e il morto che parla, due tarocchi della stessa mano. La mano del pensiero che si fa pugno, troppo che stronca. Ma il troppo stroppia solo chi pensa. Ed io penso troppo alla vita. Allora, cosa posso io, se non abbracciare la scure nera che mi divide da Ianus Pravo e da Leopoldo María Panero. Grazie a quella scure io sono stato, un giorno anche loro, e forse ho vissuto, almeno per una volta, la mia vita, a morte, senza di me. Grazie a Ianus, ferito a vita, e a Leopoldo María, vivo a morte. A voi, l’applauso del cervo, da questa pagina che non esiste. 

Antonio Bux

(seguono alcune poesie di Leopoldo María Panero da “Il cervo applaudito”, Edb Edizioni, Milano 2013, traduzioni di Ianus Pravo)

*

Che pesci boccheggiano sulla spiaggia
invocando un fiume che non esiste
e disfacendo il dolore in piccole lamine
che solo sanno piangere
come il freddo nella tomba
la tomba perfetta del poema
fatta solo per urlare
per giocare con le dita della notte

e ricordo mia madre che morì senza le sue tette
e che il Signore del mare accarezza
cercando una rovina più compiuta della rovina
più crudele del verso
che invoca se stesso
e ormai non piange.

*

Figura di Dio
un porco tra i rami
un porco che cade una volta ancora
al suolo sospirando
ferito dalla freccia del silenzio
Chi si aggirò tra viola e viola, lo disse Eliot,
facendo enorme la primavera
e distruggendo il sogno.

*

Un fiore s’insinua nella mia ferita
e scrive queste pagine perché muoia la vita
e una bara senza lacrime
torna a sputare sulla vita
dove sono solo e in piedi contro la vita
sono un fantasma crudele ai bordi della vita
nel morso di un serpente

i libri fatti non di vita ma di fiele e amarezza
inno alla gioventù perduta
come direbbe Rubén Darío
gioventù divino tesoro
che te ne vai per non tornare,
quando voglio piangere non piango
e a volte piango senza volere

Oh diamante ancora intatto
di cui sono il ricordo
perché sono solo il ricordo di me stesso
sulla sottile riva mi attraversano gli elefanti

e come un elefante cresce il poema
e come un serpente si contorce nella mia mano
cercando un palazzo che non esisteva
ed ero solo nella mano che scrive
dicendo
Dio vive nel palazzo della mia mano
nell’ombra crudele della mia mano
che aizza i suoi cani
come Diana i suoi cani

Diana sa la mattina per quanto valgono i suoi cani.

*

Il mio grande amore si chiamava Maíz Blanco
fu torturata e stuprata sulle colline
vicino al lago dove bevevano gli elefanti
e una voce sputa nel mio cervello
la parola ieri

*

Una mano scrive sull’agenda
domani ucciderò una donna
e leccherò la capigliatura
morta della sua testa
e farò canzoni per spavento dell’uomo
e parlerò all’udito delle ceneri
che non mi ascoltano.

*

Il poema è un lago
dove finisce il cervo
applaudito soltanto dalla pagina
dalla pagina in silenzio dove muore il cervo
il cervo atroce della pagina
dove non ci sono io né c’è l’uomo.

poesie di Leopoldo María Panero tratte da “Il cervo applaudito” (EDB Edizioni, Milano, 2013), traduzioni a cura di Ianus Pravo.

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