SOGNO
1
Sì, il mio sangue è avvelenato e la carne
profanata. Ci sono tanti segni impercettibili
del fatto che vivo da un pezzo all’inferno.
Il mio spirito non ha forze per contrastare il corpo,
come Giacobbe l’angelo invisibile.
Chi me lo ha scritto nel destino?
2
Io rubo la mia vita al tempo.
Il cuculo piange dietro l’ansa del fiume,
fra i rami si nasconde l’usignolo Blok.
Ecco Gogol’ che dorme, con una canna da pesca
in mano,
Achmatova si tuffa da luccio predatore,
e l’uccello Sirin dirige lo stile del vento.
3
Ma il cielo è una cupola, non un soffitto.
Tu, preso dal lavoro di ogni giorno,
non hai indovinato a che ora
lo spazio sarebbe stato pignorato.
Il cuore nel corpo mi è diventato a un tratto
solo un muscolo danneggiato.
4
Perciò alzati dal letto, porta il fuoco,
qualche medicina amara:
le radici di borace, per esempio, o di chinino.
Anche se tu e io abbiamo poco a che fare –
io sono una contadina, tu l’erede di un regno –
accetterò con umiltà i tuoi doni.
5
All’odore leggero del sangue le zanzare
accorrono, come stormi di piccole canaglie,
e il vento soffia, forse l’aliseo.
Tu intanto in sonno, spossato dall’afa,
borbotti che intorno cresce Berdjaev,
incolto, come un vecchio giardino russo.
6
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7
Aprile è stato calvo e agosto villoso,
e la contessa Guiccioli spedì a Byron
una lettera in Grecia. I corrieri furono attratti
all’improvviso dalla facciata di un palazzo.
Ma era un carcere. Un centinaio di bravi
languiva lì da un pezzo.
8
“Il terremoto è un convegno di cadaveri”,
disse un giorno un filosofo greco,
avvelenato mentre assaggiava un vino.
E aveva ragione. La morte infatti, in fondo,
è una risposta unica a una quantità di domande,
la risposta di un folle. E non è strano
9
che vedere una trave nel proprio occhio
sia più difficile che una pagliuzza
nell’occhio di un fratello. Il poeta strizza
l’occhio, la vista non gli serve a niente,
la voce di qualcuno danza
in sordina, la memoria fa una piroetta.
10
La memoria vola là dove la luce si nasconde
e dove la luna, come la bacca in un cocktail,
giace sul fondo di un calice nero.
Così la vita passa, senza aver voglia
di leggere “Lucia col var capuzzo”.
Io reggo il calice, ma la mano trema.
11
Dorme Nikolaj e Anna strologa,
il padre adottivo di Dante canta l’amore,
la mia anima se ne sta rintanata.
Corre solo la lancetta dell’ora
in giro in giro, passeggiata di un galeotto,
e la sua corsa si arresta.
12
sulle sei. E non possiamo salvare niente.
Tu parli, ma la tua voce non si sente.
L’orologio è fermo, il metallo mangiato dalla ruggine.
Per questi versi mi devi scusare.
L’ora dell’alba all’insegna delle amarene nere
è amara per noi, quanto è amaro lo pane altrui.
poesie di Svetlana Kekova, da “Lettere brevi” (1999) in Poeti russi oggi, a cura di Annelisa Alleva, Scheiwiller, 2008.