ANTONIO BUX – 10 POESIE DA “L’OPPIO DI BARNA” – (DALL’INEDITO “NATURARIO”)

bcn

10 poesie di Antonio Bux tratte da “L’oppio di Barna”, terza sezione del libro inedito “Naturario”

RAVAL

A Barna, il mio nero guscio.

Le parole toccano il fondo
delle cose sbagliate.

Il mattino è bianco.
L’anima senza chiavi.

È strada piena di occhi,
avorio in cammino.

Una volta vi erano elefanti,
da qualche parte le zanne
vibrano ancora.

Ma nessuno più celebra
le strade e l’aria è ferma.

Annibale era qui. C’è ancora.
Attraversa lo stesso
ogni incrocio. Come dimenticato.

Mujer, quitame los ojos
toglimi gli occhi,
voglio camminare buio.

PLAÇA D’ESPANYA

a Ausiàs March

È calma la voce della natura.
Un fantasma giallo, amichevole,

forse Ausiàs March,
mi disse che ha polmone
d’oscuro,  fibra contenente  

l’uomo. L’uomo lussuoso male
perduto quel respiro

l’equilibrio estingue
non più tra le acque.

LAS ARENAS

a Ianus Pravo

Il toro fuggito va al deserto,
me lo ha detto ancora Ausiàs.
Questa volta era un’ombra
mentre facevo la spesa.

Il tremore dell’arena è vivo
anche se centro commerciale
ora. Ma riesco ad uscire dal foglio
sottile ed è un ronzio diverso,

non ascolto più solo il raglio
dell’asino ma il Giano
diventato trifoglio. Mi dice “la sola
forza è lo spessore del vuoto”.

Ianus, cierra ese circulo  
como una rosa
que no sabe el aire.
Chiudi quel cerchio, Ianus
come una rosa
che non sa l’aria.

La mia mano sa,
per questo stringe così forte,
ma mani invisibili verranno
a lasciare la presa, e la nostra poesia.

GRÀCIA

a Leopoldo María Panero

Il cervo ferito non desidera
la chiara fonte. Ancora March
travestito da passante.
È stato vero con me,
mi ha baciato la fronte.

Una fossa, poi Gran de Gràcia:
giallori di gente, ramificazioni
ed echi.

Sangue ovunque, occhi
bifidi. Ma il cervo è nelle vene,
ha ali profondissime,
le corna poco cresciute.

Incontro per caso, in Carrer Verdi,
lo zombi di Leopoldo María.
Piscia in un angolo. Gli dico:
“sei tu, Panero?”. E lui: “Sono solo
l’ombra del cervo”.  Continuo.

La strada è una piscina. Uno scortichio
d’anime. Mi fermo, orino in piazza.
Ho le braccia  sudate. Lo sguardo
ricolmo di peli. Sono l’ultimo cervo.

PLAZA DEL TRIPI (PLAÇA DE GEORGE ORWELL)

È stata una farfalla di vento
a cambiare il paesaggio.
Le farfalle diventano vento
perché l’aria è piena di vermi.
Il paesaggio ora è uno schermo
di sciami: persone api
che incollano la piazza.
Tra loro, vedo sempre
un cinese: baffi lunghi
bianchi e ghigni di gesti,
mi ripete: “La mente
non esiste”. Subito dopo
diventa muro. Messo al centro
della piazza c’è il cavatappi, perfora
un cielo vicino; intorno
esseri si drogano.
Siamo noi, o i nostri
pensieri? Il pensiero
già è forma prima. Al buio
ora sfiammano i bar, tra neon
spuntano angeli incredibili
mentre moriamo di vuoto.
Fumo fino a quando ritorno
sempre al muro cinese. Questo
finta un profilo, poi nebbia.
È il corpo la sola luce.

LA PEDRERA

Era seduto con me Gabriel
Ferrater accanto un cordone
di imbecilli. Erano per lo più
americani, oh yeah, pronti
a gettarsi di sotto dal
cornicetto della Pedrera.
Io non ero tra questi, ero
più sporto, mentre l’altro,
Gabriel, spingeva l’aria
davanti a sé e ripeteva:
“non voglio puzzare
di città, no quiero
oler a ciudad“. Andò
giù. Gli imbecilli presero
a piangere, tornarono
scheletri. Io pensai all’aria
spinta in avanti, a me e al mio
odore italiano. Me ne andai.
Le mura sono l’altro specchio,
una cecità più sotto, demolita.

CASA BATLLÓ

a Pere Gimferrer

Pere Gimferrer
non l’ho mai visto,
però mi ha detto
una volta che Casa
Batlló non esiste.
“È un’immagine
di rose cadute,
un giardino tradito”.
Gli risposi che “da qui
l’aria è una vertigine
misteriosa, soggiorna
e fa luce più sotto.
E questa casa, casa morta,
volta a un emisfero di crani
rimedia il paesaggio
come un gatto miracolato”.
La mia risposta non gli
piacque, e scomparve
dietro la mia giacca.
Però ho tradotto cinque
poesie di Gimferrer.
Una proprio davanti
a questa casa. Ne ricordo
ancora la chiusa: “Al vertice
dell’aria vivrà l’aria, nel cerchio
a cupole del vento”.

MONTJUIC

Fossi albero, si muoverebbero
le mie gambe all’unisono.

Sono salito alle prime del sole
dove le soglie infinite concentrano
e fanno turbine i pensieri di stanchezza
confinata che nel corpo si smarrisce.
Vette di uomini non fanno un picco
ma trasmettono altezza all’altro piano.
Dall’alto dell’occhio cadono poesie.
Si spargono come rondini impazzite.
Dentro un volo, per caso biondo,
una voce camuffata, mormorando
in catalano mi ha dettato alcuni
versi. Versi freschi: “La montagna
è triste per l’umano. Ogni giorno
arrota un cerchio di tristezza in cielo.
Io sono sola come te, voce del creato.
Se ho per caso da darti una mano
tu mi tendi un albero, mi dici: è tutto
cominciato da cortecce. Allora ecco
rifacciamo l’albero. Imitiamo la potatura,
la ruggine fluorescente del vegetale, guarda
ora com’è spaccata la postura. Siamo dentro
al seme. Immagina qui la fierezza del ramo
spingere contro la foglia, immagina sia quella
fibra sottostante, il mondo più sotto già arreso
al vivo programma di verde. La senti, questa forza
sopprimere il tuo danno? È incredibile come sia
facile sopportare. Eppure stenta, ad allacciarsi
l’uomo alla terra. Preferisce allungare le ferite”.
Questa poesia è durata il perdono di un vento.
Poi dopo è precipitata, come la distanza si è fatta
prossimità. Io ho pianto da un solo occhio, ho detto:
vivo ancora. Perché è rapido crescere, ma non troppo.

EL LLOBREGAT

La mia condanna è il tempo
perché lo vedo.

Ricordo, mentre col bus di ritorno
da lavoro scalavo il Llobregat, come
questo fiume fosse nudo al tempo,
viva assenza, mentre noi così fermi
senza radice trascorrendo, sfigurati.
Pensavo tutto ed ecco apparirmi di lato
l’abate Evagrio, mi diceva: “il principio
della salvezza è condannare se stessi”.
Scomparve. Quando guardai fuori dal vetro
vidi un albero a ridosso del fiume, era
l’abba trasformato in purezza. Allora
dissi: chi vede in sé il perdono, rimarrà cieco.
Come io sono cieco poiché marco la luce.

EL PRAT

Dalla Catalogna alla Puglia, io come
Annibale. Perdendo le ferite, tranquillo.
Ma le civiltà sepolte. Le teste mozzate
dei briganti di Staglieno. La tomba
di Medusa dimenticata alle porte
di Foggia. Ma Herdonia, la Pompei
di Puglia, lasciata all’incuria della
cicuta. E gli ipogei sonnolenti, dall’ombra
derubata. Siamo avvelenati. I poeti
bevono questo veleno come i morti.
Un debito troppo grande, la pace
sottratta al tempo. Ma resistono
i popoli, miti. Resistono al loro mito,
ricreano la storia a metà. Muoiono
ma esistono i miti, persone come ossa
di dinosauri, custodiscono la mia terra.
Cosa posso fare perché siano origini.

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