L’ONDA TELLURICA DI ALFONSO GUIDA: UNA SCOSSA ALLA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
Posso dire che tanti scrittori di versi li leggo. E alcuni mi piacciono, li leggo volentieri. Sanno lavorare coi versi, aprire spazi. Ma pochi sono poeti. Uno di questi poeti è Alfonso Guida, lucano quarantenne, insegnante di professione e sensibilissimo autore segnato da una vita profondamente inquieta e piena di peripezie, che la sua biografia attesta ampiamente. Ma non vorrei soffermarmi sulla storia di Alfonso, dato che è tutta nei suoi splendidi versi. Appunto la biografia di Guida è la sua poesia e viceversa (d’altronde anche Barthes ci dice che la biografia è l’unica storia possibile e confutabile). E la poesia di Alfonso Guida è marchiata da una profonda umiliazione, da apparire così nuda e così splendida in questo suo umiliarsi, in questo suo arrendersi alla terra, per l’appunto, che è impossibile non essere scossi da questo moto ondoso dal quale traspare una vicenda umana sensibile e mistica. Pare un uomo d’altri tempi, Alfonso Guida. Rinchiuso nei suoi dogmi, così profondi e radicati, tanto da fare di se stesso una statua potente, un monumento del pensiero. Dalle sue scelte di vita, di sradicato anche essendo sempre rimasto nel suo habitat naturale (la lucania, san mauro forte, il suo paese natale, dove tuttora vive) pare evidente la condizione di esiliato, di straniero nella propria terra. Ma questo esilio il poeta lo vive come una condizione necessaria, come una missione alta, e non come una condanna auto-inflitta. E, anzi, diventa il suo “essere esterno”, radice per l’interno che si nutre e da cui ne viene nutrito. I richiami a molti maestri in Guida sono evidentissimi; dalla Rosselli a Bellezza, da Celan alla Cvetaeva o ancora la Achmatova, la Sexton. Ma anche dei corregionali tanto amati in passato, quali Scotellaro (a cui fu dedicata una sua prima plaquette) e Beppe Salvia. È la sua regione, la sua terra, quindi, che traspare come un respiro dominante in molti dei versi di Guida. I suoi libri sono veri, pulsano di vita e di bagliori, di immagini paurose e precise. Partendo dai primi due, notevolissimi, pubblicati da Poiesis, piccola casa editrice pugliese (“Il dono dell’occhio” e lo splendido poemetto “Irpinia” che narra del terremoto che sconvolse la stessa nel 1980, secondo me davvero un libro che meriterebbe essere adottato come testo scolastico) ecco arrivare la conferma di “A ogni passo del sempre”, edito da Aragno, nella prestigiosa collana diretta da Andrea Cortellessa, Maria Grazia Calandrone e Laura Pugno. In questo “diario in endecasillabi” il nostro poeta ripercorre una serie di esperienze vissute in clinica, rendendo la propria personalissima vicenda uno splendido occhio universale, così lucido nella sua straordinaria follia. E dicevamo appunto, dell’umiliazione del poeta, intesa come “estremo sentimento di pudore e lotta” e come “sincera umiltà” che è l’aderenza col reale, con l’humus del naturale, pur visto e vissuto da un “luogo neutrale”, che il poeta abita e frequenta uscendo fuori di sé. E in questi luoghi parla la poesia tellurica, l’onda in versi di Alfonso Guida, dando una scossa, finalmente, alla poesia contemporanea italiana.
Antonio Bux
Alcuni segmenti tratti da “A ogni passo del sempre” (Aragno, 2013)
*
Non abbiamo bisogno d’altro. Luce,
quanto cerchi nel mio corpo è il calore
di una luce. Un sole pomeridiano
che senza miracolo risorge da
vie dimenticate. Laggiù, i palazzi
bianchi, la recinzione rossa un’altra
malattia impercettibile cattura
le donne sedute ai piedi dell’olmo.
C’è un bel prato e belle le foglie morte.
Sussulto senza pensiero né tregua
che dice: “sono caduto dal cuore
che ho nascosto tra i rami per vederti.
I rami sono folti, c’è la polvere
dei nidi. Ragiono con me stesso. Tu
mi senti? Non voglio mi ascolti. Dico
cose che intrecciano la lingua al tronco
centenario”. Così, il sussulto. Piango
su una panca. L’olmo è vuoto. Le donne
se ne sono andate. È un bene, è un male. Tu,
solitudine, conferma te stessa:
Madre, continua a stare anche in me sola.
*
Non è la lentezza celeste di Char.
Ma una confusione madornale, ispida.
Ricevo un trattamento pesante. È
coscienza questa, è consapevolezza?
Credo sia il tuffo di un alpinista nel
gorgo. A volte l’ebbrezza sostituisce
la furia, la morte, il dolore (come
sempre). Il vuoto è il solo a prendere il posto
di se stesso. Non c’è contraddizione
tra quello che t’iniettano e ciò che ti
dicono. Non nascondono niente. È un
divieto. Il malato deve sapere.
Deve poter trasfigurare quanto
non conosce. I suoi contrasti, il feticcio
dei suoi smarrimenti, il totem dei suoi ardui
recuperi. Deve poter seguire
la via dell’eclissi, l’oscuramento
dei suoi anni, il tremore dei suoi occhi, gli occhi
spenti e incorporei, gli occhi cancellati.
*
G. sembra un lottatore di sumo. Una
maschera turca. Sono stati i vigili
a portarlo qui. Senza soldi, senza
documenti, senza sigarette. È
basso, tozzo, ben piantato. Viene da un
villaggio dell’entroterra. È irascibile,
grida, urla, ma non è violento. Sembra
camminare su un solo piede, parla
di Berlino, ripete di continuo il
nome di questa città. L’ex Germania
dell’Est gli ha scolpito il cuore. Era sotto il
Muro – piccione e manganello – quando il
Grande Muro è stato abbattuto. Parla un
linguaggio che è un coacervo d’italiano,
tedesco e dialetto. Appena è giunto nel
nosocomio lo hanno subito messo
sotto sedazione. Ha strattonato uno
dei medici fino a farlo cadere
per terra. Ha sputato contro le labbra
di un’infermiera. Sbraitava contro la
polizia e le guardie dell’ospedale.
È stato braccato furbescamente
con una mano al collo e una alla pancia
dal comandante dei vigili. Gli hanno
frettolosamente iniettato dell’Haldol.
Si è quietato. Ma temendo che possa
svegliarsi e scappare lo hanno legato al
letto – polsi e caviglie – con due grosse
fascette di cuoio. Lo hanno spogliato.
Da sotto i testicoli una larghissima
imbracatura di cotone idrofilo.
È tenuto sotto osservazione. Due
flebo, i legacci, il cuoio traforato.
Ho saputo che ha rotto i vetri di otto
macchine parcheggiate accanto al nuovo
giardino comunale. G. è un’enigma.
La sua stazza fa ondeggiare il lettuccio
coi grossi lenzuoli dal marchio blu.
Sembra cullarsi. E dopo quattro giorni
di sonno indotto mi si è avvicinato.
Voleva del tabacco. Biascicava.
Le sue bave, i suoi filamenti bruni
di saliva. Un lenzuolo attorcigliato ai
fianchi (alla maniera del panno con cui
viene raffigurato Cristo). I suoi occhi
smangiati dal sebo, il gonfiore delle
guance color verde-salmone. In certe
giornate, quando comincia a parlare
da solo sotto il pilastro, cerco in lui
le tracce del mio stato immaginario:
senza ossa, retto in piedi da una sola
massa di carne che a volte si srotola
sull’ammattonato fino a mutarsi in
una trottola piena di pulviscolo,
macchie e lividi. Parla di stregoni,
chiaroveggenti, di un pezzo di Muro
che tiene a casa come una reliquia.
“Hai lasciato l’anima a Berlino”, gli
dicono spesso i malati del nostro
reparto. Ride. Già, in quel tratto, ride.
Ridiamo tutti. “Berlino è nel secchio
della pattumiera e lì deve stare”,
dice, guardando la televisione.
*
Ci sono tornato più volte. Né una
parabola né un digesto. È un lavoro
quello delle diagnosi che spetta alla
sapienza ordinatrice di chi vive
fuori da certi schemi o addentellati.
Chi sono gli astinenti? Coloro che
si sono messi in testa di guarire?
Di arrampicarsi alla fede cadendo
nella trappola di una religiosa
cecità? Questi si fanno offuscare
da Dio, dal Volto Santo, da una specie
di misticismo ondulatorio che sta
tra una speranza già acquisita e un verbo
che potrebbe essere “ingannarsi”oppure
semplicemente “mentire a se stessi”?
Falsa menzogna. Vera è soltanto una
liberazione aggressiva, un respiro
senza pioli. “Ha i soldi necessari per
la riparazione del suo io?”, mi ha detto in
sogno l’archiatra poche notti fa. Non
serve una scala di corda né un chiodo.
Fare del fondo una sedia di giunco.
*
C’è forse una parola che ogni frase
tenta di prendere al volo. Un segugio
che ha sorpassato tutte le uste e ancora
continua a camminare fiutando la
giravolta del suo stesso cranio. Una
casa mangia i suoi contorni. Cancella
tutto del suo impianto. Entrare, uscire. Anche
l’ansia del perché è di fondere il proprio
corpo col muro. È il crucifige di altre
memorie, di altre condanne faziose.
Alfonso Guida (1973) è nato e vive a San Mauro Forte, in Lucania. Nel 1998 vince il premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra mortea cura del Laboratorio delle Arti di Milano. Nel 2002 vince il premio Montale con la plaquette Le spoglie divise (Quindici stanze per Rocco Scotellaro). Suoi versi sono apparsi su diverse riviste e antologie italiane, fra le quali «Poesia». Ha approfondito in particolare l’opera di Dario Bellezza, Amelia Rosselli e Paul Celan. Ha pubblicato nel 2011 la raccolta Il dono dell’occhio e, nel 2012, Irpinia.
E’ un poeta molto interessante, notevole l’epopea di G.
Personalmente penso che Alfonso sia uno dei quattro/cinque poeti italiani contemporanei da seguire e apprezzare. La sua scrittura commuove e rievoca antiche immagini sopite, la sua preghiera solenne è un passaggio dimensionale piano, volto al continuo ritorno, al peccato errante. Lì l’origine, appunto. E cos’è, la vera origine, se non una macchia dentro di ognuno, indelebile, che testimonia la nostra estraneità?
A presto, e grazie.
Bux