LA VITA IN VERSI
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro volere essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
QUANDO PIEGA AL TERMINE
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
MI CHIEDI COSA VUOL DIRE
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
DAL SUO PUNTO DI VISTA
L’opuscolo di propaganda che ti dice?
Illustra la sorte nefanda (cioè
da non dirsi) del popolo infelice
– t’introduce al benessere dal suo
contrario, e fuor di questo
benessere non c’è
(“siatene certi”) bene prevedibile.
“Una merenda al cittadino onesto,
amore senza rischi, una crociera
alle Canarie o al Baltico, una casa
coperta da ipoteca redimibile.
S’allargano i confini dello scibile
se muta il presupposto
– c’è Luna,
di gennaio o d’agosto,
che aspetta una fortuna: i volontari
(è tutto già disposto)
dei voli interstellari.
Altro non c’è,
fuori che questo, vero disponibile.
Per quattro impiccagioni
rovinarsi la cena è una follia:
mondo che vai e tecniche diverse,
il risultato è uguale…
Ma piuttosto
considera il mercato potenziale
ancora chiuso ai traffici
– una volta sul posto:
daremo frigoriferi
in cambio di caviale.
L’anima, il bene e il male, vecchie storie…
È tutto garantito
ciò che potremo dare
a prezzo ragionevole
in cambio d’una tregua militare:
i biliardini elettrici
ai malati di nervi,
concerti nelle fabbriche e una dieta
quasi conforme per padroni e servi.
Daremo anche il poeta
che colga a prima vista
un neroblù di rondine nel cielo
– per la squallida coppia socialista,
domenica sulle rive del mar Nero”.
1958
I SEGNI DELLA FINE
I segni della fine posso imitarli,
raggrinzire sul dorso della mia mano
la cute in corte serre – farle durare
gli attimi di pensare che saranno
millenni per quelle decrepite cellule.
Ancora senza danno posso cogliere a volo
l’idiozia estro che un ghirigoro
in una piega del cervello lampeggia
e mi blocca
una chiusa di capillare irrorante.
Coltivo emiplegia, storta bocca,
disconnetto parole e utensili, chiedo
un coltello (per esempio) da bere.
O in un riflesso di vetrina mi so vedere
e subito
farmi ginocchia che male mi sorreggono,
discreto farneticare: l’ammazzo, mi ammazzo,
e uno che mi segua cauto, chiami guardi – ma no,
per dirgli subito poi, è lei che vaneggia.
E io irreprensibile, rispettabile – o
a une dieci di sera
da un artificio precipitare in realtà,
diventare, cullarmi americano ubriaco
e naturali rutti politica fluire,
mio cinema. E in amore
cedere a ogni previsto senile errore
o giovanile che è
uguale sia pure speculare – piatire,
non saper non tremare, amare una
nel contemplare il luogo dove passò.
E i poveri esercizi del corpo
e l’acqua dove nuoto che ha luce d’obitorio
e io che ci scherzo là in fondo guardandomi
morto – per mia mania
di pareggiare biografia e biologia.
I segni della fine posso imitarli e allontanarli.
Io so che sono loro che imitano me.
Come la vita non si può modificare,
ma al prezzo di esserne ingannati
tuttavia ingannare.
5 POESIE DI GIOVANNI GIUDICI (1924-2011)
tratte da “Poesie 1953-1990” (Garzanti)