DA “TRILOGIA DELLO ZERO”
DI ANTONIO BUX
MARCO SAYA EDIZIONI, 2012
DALLA TERZA PARTE “RAICES DE ZERO”
SEZIONE V
LA DIETA
(POESIE SENZA PESO SPECIFICO)
“Sparecchiando la tavola
svuotata degli anni,
ho trovato un informe
gracile altro me
ranicchiato sul bordo
dell’altra sponda commensale
intento a rosicchiare briciole di niente;
e poi invece, come una presenza
inadatta all’angolo, ritratta
la mia sagoma ingorda
(quell’esterna dis-grazia)
soccombere nel quadrato
-nella voragine del corpo-
consumando ai lati centrali
del mio processo nutrizionale
il reato della troppa quiete”
Ricordando che:
“L’immagine interna del doppio non è la sintesi
dell’ambivalenza, piuttosto la sottrazione
del corpo alla moltiplicazione esterna,
la scomposizione di migliaia d’altri doppi
in due sole parti: un’infinità di corpi dimezzati
nella sovrappopolazione epidermica dell’apparenza.”
I.
“Perché nello sguardo della memoria
vi è un occhio che si apre sul futuro
quando nella vista si rigira all’indietro
e su di sé vira la colpa dell’immagine.”
Perdere peso significa
divorare centimetri all’anima,
ingrassare il vuoto all’indietro
saturando l’oscuro dentro.
Ché poi la zavorra maggiore
-ossia quell’ossatura imprevedibile
che si sporge dal groppone sul dorso-
(quell’altro che sopportiamo sulle spalle)
non arresta mai la propria fame,
e quindi la bilancia
pende sempre a suo favore.
II.
Guardando nell’orizzonte interno
ovale del sedano, dal cannocchiale
fatto di fibra vegetale, si dimensiona
la distanza che separa la cucina
dalla fame, come quando il mare
osserva il proprio asse sparendo
dietro le onde. Così si sottopone
il cervello alla litania della dieta:
si scruta da lontano il corpo
che dissimula un altro corpo.
III.
Si schiera il plotone degli zuccheri
nell’esecuzione postprandiale:
bruciano lentamente gli amidi
le calorie in esubero, dopo il caffé
dove il dessert racconta al cucchiaino
delle straordinarie armi dei polinsaturi
legati a una conduttura base del sangue
sparando cioccolata bianca sulla molecola;
la trincea dell’esofago allora erutta, cede
al colon il confine, nella resa dello stomaco
e dalla palude del pancreas un famelico stato
riordina le gerarchie, la costituzione della bocca
subordinata al morso, nella guerra della digestione.
Ricordando che:
“I cicli cambiano, non fermano
le immagini immobili in un tubo
nella proiezione catodica dell’evento
non registrato, rimasto solo in onda
nel suo giro improvvisato d’astuzia
dal vortice diagonale di un cucchiaio
dove imprecisate tirannie del moto
mi dividono dalle onde del caffè
(lo spartiacque che conduce al calore
nella deriva delle labbra scottandomi
in un candido deserto di aminoacidi)
allora è un abbaglio l’acqua nella tazza:
dove assediando la mia lingua di bianco
zuccherata solo in un punto lì al centro
c’è un ritmo diverso che s’inverte al resto:
nel fiato corto il disavanzo, lo scioglimento
del corpo immolato, la riemersione da tutto.”
IV.
La cucina è retrocessa a bosco:
nella fauna del frigorifero si osserva
il lento decrescere degli ortaggi, il fondere
degli avanzi con i gas imbottigliati.
E dunque ci si domanda (quando si fa sera
e il buio riaccomoda tutti gli odori)
cosa rimane, al di là della selva fresca
nello specchio rovesciato della gola,
quando si ciba fuori il proprio deserto
lasciato ad essiccare nella flora del rimorso.
V.
Ogni giorno si dimezza
meglio il dentro che il fuori
e più cresce altrove
la stazza insicura,
più la fame rientra
tra i bordi dell’organismo
e si autoalimenta il perdono;
è questo allora il sottile gioco
delle parti: da un lato il sacrificio
si consola nella resa, e dall’altra
metà del corpo, si dissolve la vita.
Ricordando che:
“L’obiettivo dell’inappetenza
non è poi tanto il risultato
il peso equilibrato, lo spostamento
delle porzioni; ma piuttosto la difesa
rientrando in se stessi -la separazione-
come quando si esagera col vino
e ci si ripromette di non bere più.
Ma quando il domani si sovrappone
e quindi torna l’origine al proprio zero
-si tace il corpo all’enigma della presenza-
si flette all’ingombrante peso da espellere.”
VI.
Il muscolo è un infortunio aerodinamico
una giuntura della retrocessione: si arrende
alla contrazione, nel ritmo sospeso
allunga oltre il gesto la sua fine,
si espande quindi fino allo spasmo.
Perciò muoversi è un abbaglio:
nella lentezza del corpo si raggiunge
il raccordo dello spirito, si ripristina
l’incerto cammino dello scheletro umano;
fino all’ultimo centimetro si ricuce all’anima.
VII.
Passando mesi a vuotarsi lentamente
si riesce a capire perché retrocediamo,
disavanzando nel ciclo della forma:
è un modo di riequilibrare il vissuto
una geometria osservata capovolta;
perché se è vero che la linearità conta
è anche certo che superando il confine
del proprio profilo si scorge l’altrove
sempre uguale a quel moto abbandonato;
dunque è un bilanciamento inopportuno
essere stati insieme il passo e la gamba,
la fibra dell’abbaglio e l’osso della scelta.
VIII.
L’obesità è la sicura sostanza
il doppiarsi della quiescenza:
un rimanere ingabbiati nella morsa
crogiolati al tavolo del peccato
giorno dopo giorno accomodando
l’altra presenza a crescere ancora.
IX.
Il sacrificio, la vittima
non è il corpo, e neanche la mente.
Piuttosto la mandibola sguardo
il cuore radice, la pianta cervello
che non perdonano l’assedio
condotto dalla buona volontà.
È un’abrasione dell’inganno ottico:
nel buio si osserva la colpa del profilo
ma ritornando alla luce non si spaventa.
E allora si pensa -nel modellare se stessi-
cos’è che cambia dopo: il cieco restauro
o l’occhio che riesce a scolpire nella vista?
La risposta è una statua che risplende
ma che in bilico rimane, senza il suo piedistallo.
X.
E poi si impara l’imperfezione
della pelle -l’incertezza della carne-
quel grammo di verità nell’attrito
dello spazio: perché dalla volontà
non si ottiene altro che il rovescio
di una medaglia opaca. Allora
è proprio ingrassare l’assioma vitale:
ciascuno coltiva da sé il suo male
trasformandolo in linfa per altro male.
Dunque è un’intolleranza riuscire
a distinguere il proprio peso da se stessi
e proiettarne gli avanzi sulle carenze del mondo.
Ricordando che:
“La luce che si filtra da sé
-oltre la barriera del suono-
dalla persiana della vista
si riconduce all’immagine
nel contorno dell’ombra:
è da lì che una forma dice
al corpo la propria assenza,
come la voce che si satura
lenta nei polmoni ad espiare
la compressione della materia.”
IMMAGINE
DI FERNANDO HEREÑU
AKA PULPO