Dal capitolo I “Anatomia urbana”
Presenza
All’infuori di me, non la mia
casa, minimamente forse
oltre le mura scorgo, al di là
del soffitto basso, tracce di te
nascosta tra la cute bianca
dell’esterno, o forse solo ricoperta
dalla calce per preservarti; chissà
se queste stanze hanno le stesse forme
di chi ti ha vissuto: forse allora
le nascondo, appendendo
foto e quadri immobili,
occhi che celano altri occhi.
Il sogno della casa
(Risveglio domestico)
I.
Prendendo l’entrata della stanza
il ripiego alla finestra, c’è aria
e calma come in soggiorno a muovere
il divano misurato alla crescita, il lume
ancora acceso l’ombra a riscaldare.
Di più fa la tenda: si misura all’altezza
del sogno diagonale, stretto nel soffitto
il dolore della casa, il perimetro delle cose
perdute -la cucina stretta ai margini- giocosa
tra un bicchiere e una stoviglia si dipana, riposa.
Così sembra taumaturgica la proiezione domestica
riflessa nella bottiglia: dove il bagno cede al sogno
crescendo in giardino l’altro figlio, l’eterno frutto
il disegno senza piglio, l’esatta mancanza di tutto.
Dunque è una scala che si allunga verso il basso
la proporzione casalinga, l’illusione di gesso:
calco di un profilo sbagliato, la casa infestata
geometria diversa -ottica di un angolo rovesciato-
occhio perverso; dove il segno cede ogni suo lato
spaventando nella vista, progettando l’altra testa.
II.
Questa casa è una casa nel sogno:
vuota si tende, si allunga nel sonno
in un perimetro di sdegno, -la luce rotta
all’interruttore del tempo, che non misura
le tende del soggiorno, le orme nel bagno
incollate alla doccia, muoversi come nel freddo
le sedie girate verso i muri bagnati -sequenze
di plastica squagliando le entrate- la geologia delle posate-
il fossile della casa dissotterrato e così il ferro
caldo del coltello sul fuoco, lama di silenzio a incidere
tagliando a fette la cucina, rami d’alloro; allora vive
questa casa una sacrestia domestica, l’umida legge
dell’entrata componendosi sull’uscio: l’alta caloria
del grasso formare il disegno, la casalinga memoria
dove il cedimento è la pressione, la cottura interna.
Dal capitolo II “Timeless”
Ciclotimia
L’esterno ci limita
a spazio vuoto stabilito
quando nel disperdersi
s’allunga la differenza
-nella lontananza dentro-
e niente s’assomiglia
rivedendosi uguale.
Resti d’altro oltre
Della chiusa fronte s’immagina
una mente cresciuta retrocedere
dal mondo che è universo nel dare
suono a quel vuoto che tutto sente,
ma manca l’uomo all’uomo, l’irreale
spazio non dato a vedere per essere
punto di non ritorno oltre cammino
passo nel passo d’eterno destinarsi.
Dove tutto si ascolta tacendo
-anche l’acqua cantare la notte-
nel mare ospitando le ultime stelle
e sabbia germogliare dall’onda
come fermo il mondo scorrendo
trasparente nel vuoto del respiro;
e siamo invisibile richiesta sapendo,
dimenticando d’essere anche un rivelare
silenzioso terreno dell’inascoltato
inumana domanda nel rivolgerci parole:
“dì noi ancora, precipizio del tempo
del mietere ricordi utili a dimenticare
il miracolo del mondo e le redini
dei cavalli d’una mente universale,
e lascia vita uccidere i suoi uomini
e parole scorrere invano dagli occhi”;
ché vanno nell’andare deserto
pensieri bagnati di fonte
straniera nello scorrere
a valle del delta pensiero,
e parole splendenti di sale
cristallizzando un muto mistero.
Dal capitolo III “Malanera”
Mater morbi
Prendi forma da un suono crudele,
uno spasmo concepito dall’uomo
più invasato, dalla bestia più indomita;
un abbaglio d’ombra che dà alla luce
raggi di tenebra -eclissi perenne della terra-
che dimora nell’ombra dell’uomo e delle cose.
Canto dell’amante perduto
Ti posso dire anche rimani
non andare dentro, ti prego
ché tutto ritornerà a muoversi
e sarà pietra il tuo abbraccio
come dal mare ritornando
le onde del tuo seno al fianco
strati di pelle risalire bianchi
dalla spuma che Venere
rimuoverà nel volo ultimo
dove saremo il sale vivo
ma ti dico davvero fuggi
altrove da questo cerchio
ché la marea muove indietro
la pupilla di perla accecando
le mani, sapremo dunque noi
essere ancora noi al di là
quando il mio saluto cadrà
come piombo nell’acqua
e il tuo sguardo sul fondo
mi indicherà la profondità
che non conosco, e poi dopo
saranno i venti a impedirci
del bacio la chiusura a spina
tu rosa di luce tra rose morte
tu amatissima cosa distante
pralina di roccia che componi
il letto pluviale di tutto l’ardore
se ti vedo mi muove un fiume
sciogliendo i capelli dove dentro
di te riemergo dal solco celeste.
Dal capitolo IV “A minimal soul”
Buioluce
Si muore
di un sonno, che
è quel non esserci,
nell’abituarsi alla morte
ad ogni voltura notturna
quando non c’è sogno
in vita, ma sonnolenza
-ché gli occhi marciscono-
nel cercare una luce.
La gravità di novembre
I.
Scorre in silenzio
la vita sotto
le foglie del pensiero
ammucchiate, in disparte
bruciate dalla muta stagionale
-sperdute-
dalla ragione degli anni.
II.
Perché resistere all’origine è sapere
del midollo la parte in frantumi, l’osso
eretto dell’ombra, la prescrizione degli organi
quando riordinando il sangue al centro
si tira a indovinare l’astrologia delle vene
e del corpo cassaforte la combinazione
perché la somma non risulta la definizione
piuttosto la sottrazione finale, la diagnosi cieca:
l’errore del contenitore vuotandosi al nominale
ché due più due fa meno due, binomio di negazione
divisione tra tempo e dimensione, morte percentuale.
Dal capitolo V “La radicementificazione”
Intimisto
Come mai il sole.
Perché l’acqua, e le montagne
bianche, e i prati in fiore.
O forse anche il chissà
di un desiderio.
Questo mare che filtra
nel porto, i pesci volanti.
Come mai qui non c’è fine
né un accenno di passato. Soltanto
le catene, la prigione di un perché;
nel purgatorio del sostare negli altri
-sentirli svanire sostando sul niente-
fa l’anima vasto giardino.
Busillis
E allora lasciamo che il silenzio
sfiori le nostre lingue frettolose,
e che armonia sopraggiunga
tra le dita confuse, e si abbia ragione
di pensare anche il male come
ad un pensiero sublime, lasciato lì solo
a maturare, nell’attesa che un nero seme
possa diventare -un fiore bianco-
sul quale in pace morire, così come
il dubbio d’un pensiero universale attraversi
la mente di quell’uomo sicuro di sapere.
Dal capitolo VI “Nel metaverso (sintomi di agrafia)
Giardini d’inchiostro
Poiché tutto è labirinto
scrivendo di schiena,
s’apre al silenzio
l’essere sentiero dell’altro
nell’attraversare
giardini d’inchiostro;
e non serve parlare
all’ombra per oltrepassare
voci a specchio, quando
nel gorgo di parole
riemergono solo i punti
L’antieri
“La poesia è come polvere:
una volta soffiata torna
sempre a posarsi.”
Bisogna dare aria alle parole
rassettare bene l’idea
d’ogni cosa sapere
l’esatto strato di polvere
il peso a perdere
sulla tara del silenzio;
perché gli oggetti risplendono
quando non sapendosi nel nome
si dipingono perfetti
ad immaginazione -nel disordine della vista-
crescendo vuoti, lasciandosi diventare.
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poesie di Antonio Bux tratte da “Disgrafie (poesie 2000-2007 e altre poesie), Edizioni Oèdipus.
in copertina: illustrazione di Lucia Leone.
*
di Antonio Bux
da “Disgrafie (poesie 2000-2007 e altre poesie)
con illustrazioni di Lucia Leone
e note critiche di Ianus Pravo e Federico Federici.
Edizioni Oèdipus.